Keystone species: l’importanza di una specie chiave di volta per l’ecosistema

Specie chiave di volta_Decennio del Mare

Negli anni ’60, l’ecologo americano Robert T. Paine fece presente per la prima volta il concetto di “specie chiave di volta”, in inglese keystone species.  

Esistono, infatti, alcuni organismi (animali, vegetali o fungini) che aiutano a mantenere un ecosistema in equilibrio. Senza di esse, l’ecosistema sarebbe completamente diverso o cesserebbe di esistere del tutto in quanto la sopravvivenza di queste specie è fondamentale per l’esistenza delle altre. 

Le specie chiave di volta hanno una bassa ridondanza funzionale: se la specie dovesse scomparire, nessun’altra sarebbe in grado di prendere il suo posto nella nicchia ecologica che occupava. 

Come è nato il concetto delle specie chiave di volta?

Paine condusse un esperimento, da non replicare a casa. In una zona costiera lungo la costa del Pacifico nord-occidentale degli Stati Uniti,l’ecologo eliminò nell’arco di venticinque anni, il predatore principale di quell’ecosistema: la stella marina Pisaster ochraceus, meglio nota come stella marina viola. 

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© Ochre sea star (Pisaster ochraceus) taken at Ganges Harbour Salt Spring Island British Columbia by D Gordon E. Robertson via Wikipedia

Pochi mesi dopo la scomparsa delle stelle marine, le cozze presero il sopravvento nell’area. La presenza di un maggior numero di cozze portò alla diminuzione del numero di organismi di altre specie, tra cui le alghe bentoniche che a loro volta sostenevano comunità di lumache di mare, patelle e bivalvi. 

Nel complesso, la biodiversità di quell’area era crollata: il numero di specie presenti passò da quindici a otto.

In una ricerca scientifica del 1966, Paine spiegò cosa fosse successo e identificò la stella marina viola come “specie chiave di volta” , capace di influenzare con la sua presenza, o assenza, i livelli inferiori della catena alimentare, impedendo a determinate specie di monopolizzare le risorse, inclusi spazio e cibo. 

Oltre alla stella marina c’è di più 

Le specie chiave erano originariamente definite come consumatori che modificano notevolmente la composizione e l’aspetto fisico di una comunità ecologica. Tuttavia, molti studi hanno dimostrato che non solo i predatori possono essere classificati come specie chiave, ma anche gli ingegneri dell’ecosistema, come i castori, i coralli e persino le mangrovie o le specie mutualiste come le api e i fiori. Vediamone insieme alcune.

Specie chiave di volta_Decennio del Mare
© Isaac Mijangos via Pexels

Nel mare non ci sono solo i coralli, ma anche altri ecosistemi fondamentali per mantenere il mare in salute. Un esempio sono le foreste di Kelp. Le Kelp sono delle alghe brune che raggiungono anche 50 metri di altezza. Tra le fronde delle foreste di Kelp della costa occidentale nordamericana vivono le lontre marine (Enhydra lutris). Proprio le lontre marine sono una specie chiave di volta, in quanto proteggono le foreste di Kelp dai danni dei ricci di mare di cui si nutrono.
Quando fu avviata la caccia alle lontre della costa occidentale nordamericana per l’uso commerciale della loro pelliccia, il numero di individui scese a livelli così bassi da non riuscire più a contenere la popolazione dei ricci di mare. Infatti, i ricci, a loro volta, pascolavano le praterie algali così pesantemente che nel giro di poco sparirono, insieme a tutte le specie che dipendevano da esse.

Specie chiave di volta_Decennio del Mare
© Ocean Image Bank – The Ocean Agency Mangroves

Tra le piante, importanti specie chiave di volta sono le mangrovie che proteggono le coste dall’erosione costiera, catturano e stoccano grandi quantità di carbonio e forniscono habitat sicuri a piccoli pesci e altri organismi.

Tra gli animali, oltre alle lontre e le stelle marine,troviamo i coralli. Questi piccoli animali crescono come una colonia di migliaia e persino milioni di singoli polipi. Gli esoscheletri rocciosi di questi polipi creano enormi strutture, le scogliere coralline.
Le scogliere coralline supportano più specie per unità di superficie rispetto a qualsiasi altro ambiente marino, tra cui circa 4.000 specie di pesci, 800 specie di coralli duri e centinaia di altre specie.

Specie chiave di volta_Decennio del Mare
© Renata Romeo by Ocean Image Bank

Le barriere coralline supportano più specie per unità di superficie rispetto a qualsiasi altro ambiente marino, tra cui circa 4 000 specie di pesci, 800 specie di coralli duri e centinaia di altre specie. 

Specie chiave di volta_Decennio del Mare
© Tom Vierus by Ocean Image Bank

Ed infine, gli squali. In quanto predatori apicali, gli squali svolgono un ruolo importante per gli ecosistemi oceanici. In quanto predatori, mantengono in salute le popolazioni delle loro prede catturando i pesci più lenti e deboli. 

Lungo la costa atlantica degli Stati Uniti si è constatata una diminuzione del numero di squali con un conseguentemente un un incremento della popolazione della razze “muso di Vacca” Rhinoptera bonasus. Questa specie di razza si nutre di bivalvi, vongole e capesante. L’aumento della sua popolazione ha avuto ripercussioni anche sulle attività economiche della baia. Le capesante infatti erano il fiore all’occhiello dei pescatori, ma anche le razze ne erano ghiotte. 

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Rhinoptera bonasus © Brest Citron via Wikipedia

Differenza tra “specie ombrello” e “specie chiave di volta”

Si definisce “specie ombrello” una specie  la cui conservazione attiva comporta indirettamente la conservazione di molte altre specie presenti nel suo areale. La maggior parte delle specie ombrello sono specie migratrici, quindi si spostano anche per migliaia di chilometri durante la loro vita non avendo un impatto diretto sulle reti alimentari, come invece lo hanno le specie chiavi di volta. Esempi di specie ombrello sono: orso grizzly, la tigre, il lupo e il panda gigante. 

Le tartarughe marine sono una specie ombrello degli ecosistemi marini, in quanto svolgono ruoli importanti negli habitat costieri e marini contribuendo alla salute e al mantenimento delle barriere coralline, delle praterie di fanerogame, degli estuari e delle spiagge sabbiose. 

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© Jeff Hester by Ocean Image Bank

L’importanza delle azioni di conservazione

Aumentare la consapevolezza sull’importanza del ripristino dell’ecosistema e delle specie chiave di volta vulnerabili o a rischio estinzione è un ottimo modo per coinvolgere sia le istituzioni e le organizzazioni sia i singoli individui.

Con il programma di Educazione all’Oceano (Ocean Literacy) di  IOC-UNESCO e il programma regionale del Decennio del Mare vogliamo far conoscere le bellezze e la ricchezza degli ecosistemi marini e le sfide che stanno affrontando affinché ognuno di noi possa rispettare e amare al meglio le meravigliose creature che abitano l’oceano.

Ricorda che durante le uscite in barca o durante le escursioni lungo i litorali puoi aiutare gli scienziati nel monitoraggio e tutelare l’ambiente inviando segnalazioni degli animali o piante che ti capita di incontrare. Insieme per il Pianeta Blu! 

Di chi è il mare? La storia del Diritto del Mare

“Di chi è il mare?” è una domanda che ci facciamo spesso e che altrettanto speso sembra non avere una risposta. In realtà, il Diritto del Mare è regolato dal 1982 tramite la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS). Analizziamo assieme per capire meglio se il mare è di tutti, di nessuno o dello Stato.

Il Diritto del Mare regola i rapporti tra gli Stati per quanto riguarda gli usi del mare. Per la complessità, l’interdisciplinarietà e l’evoluzione della tematica, il diritto del mare è estremamente dinamico e si deve saper adattare alle nuove sfide. Per questo, ancora oggi possiamo assistere a momenti di negoziazione per tutelare e regolamentare l’utilizzo delle risorse marine. Un esempio sono le negoziazioni che si stanno svolgendo a New York ad agosto 2022 per adottare il Trattato dell’Alto Mare.

Nonostante tutti noi abbiamo accesso al mare, esiste una suddivisione in diverse zone tra completa libertà e completa sovranità dello Stato costiero. Ogni zona è caratterizzata da un limite definito in base alle miglia nautiche dalla costa ed è regolamentata da diversi obblighi, leggi e regole. Come si può osservare dall’immagine sottostante, le zone principali sono 5: Mare Territoriale, Zona Contigua (ZC), Zona Economica Esclusiva (ZEE), Alto Mare e Area.

Diritto del Mare_Decennio del Mare
Zonazione dello spazio marittimo Camilla Tommasetti per IOC-UNESCO

Mare Territoriale

Striscia di mare adiacente alle coste dello Stato. Il limite massimo di estensione è 12 miglia, misurate a partire da una linea di base.

Zona Contigua

Si estende per altre 12 miglia nautiche oltre il mare territoriale. Qui lo Stato costiero esercita la sua autorità al fine di prevenire o reprimere infrazioni alla sua legislazione nazionale.

Zona Economica Esclusiva

Se dichiarata e approvata, si estende fino a 200 miglia nautiche dalla costa. Funge da zona di transizione tra la completa sovranità e la completa libertà.

Alto Mare

Qui si applica il principio della libertà del mare a condizione che siano rispettati gli interessi degli altri Stati.

Area

Il fondale oltre la Zona Economica Esclusiva, chiamato Area, e le risorse minerarie lì presenti sono considerati Patrimonio Comune dell’Umanità.

La storia del Diritto del Mare

Il primo tentativo di regolare la sovranità delle acque è avvenuto nel 1493 attraverso un atto presente nella bolla papale “Intercetera” da Papa Alessandro VI. Nel 1942, Cristoforo Colombo scoprì l’America, pensando che il modo migliore per raggiungere l’India fosse navigare a sud, alla latitudine delle Canarie. Per rientrare in Europa invece, è preferibile navigare alla latitudine delle Azzorre. Al suo ritorno il Papa tracciò una linea unendo il Polo Nord al Polo Sud a una distanza di circa 100 leghe (circa 482 chilometri) dalle Azzorre. Tutte le terre emerse localizzate a ovest della linea appartenevano alla Spagna.

Il Portogallo non era contento della donazione. Infatti anche il Portogallo è uno Stato cristiano ed è bravo nella navigazione, per questo cercò di negoziare la decisione. A Tordesillas, in Spagna, venne così stipulato il “Trattato di Tordesillas” che tracciò il meridiano Raya a 370 leghe (circa 1786 chilometri) di distanza dalle isole di Capo Verde. Portogallo e Spagna accordarono che tutte le terre a ovest della linea appartenevano alla Spagna e quelle che si trovavano a est al Portogallo. Questo è il motivo per cui in Brasile ancora oggi si parla portoghese.

Nel 1529, con il Trattato di Saragozza, gli Stati iniziarono ad acclamare la proprietà anche dell’area marina, escludendo la possibilità ad altri Stati di navigare e svolgere attività in quel tratto di oceano senza essere in possesso di un’autorizzazione rilasciata da Portogallo o Spagna.

Altri Stati, come Olanda, Grand Bretagna e Francia non erano disposti ad accettare la divisione delle acque solo tra Spagna e Portogallo. Per loro, il Papa non era un’autorità politica, e per questo non aveva il potere di donare terra e acqua ad alcuna nazione.

Il mare è libero o no?

Nel 1609 Hugo Grotius, filosofo, teologo, avvocato e politico olandese, in difesa del diritto del suo Stato di navigare e commerciare in mare, scrisse il saggio “Mare liberum”, aprendo un nuovo dibattito sulla libertà del mare. Secondo Grotius è impossibile che gli Stati impongano la loro sovranità sull’acqua. L’acqua è un elemento libero e non si può impedire a nessuno di usarla.

Nello stesso anno, in Inghilterra, Re Giacomo promosse il contenimento dell’attività di pesca nelle acque costiere della Gran Bretagna. Questa legge proibì a tutti gli stranieri di pescare lungo le coste delle isole britanniche per evitare la pesca eccessiva. Il limite della legge era dato dal fatto che non fosse chiaro fino a che punto si spingessero le acque inglesi.

La prima divisione del mare

Per la prima volta, gli Stati potevano avere la sovranità solo in prossimità della costa, nelle acque territoriali, oltre questo limite c’è l’Alto Mare che, ancora oggi, è libero. Ma come è stato stabilito il limite delle acque territoriali?

Lo scrittore olandese Cornelis van Bynkershoek nel 1702 scrisse un libro “Dominio mari dissertation” sul limite tra le acque costiere e l’alto mare. Lo scrittore teorizzò la “regola del tiro di cannone”, identificando il confine nella distanza massima del tiro di un cannone. Il problema è che la capacità del tiro di un cannone di coprire una distanza sempre maggiore aumenta nel tempo, quindi la misura può cambiare in base allo sviluppo tecnologico del singolo Stato.

Lo scrittore italiano Ferdinando Galliani scrisse un libro “Diritto del mare in tempo di guerra” secondo il quale, per evitare le discussioni, si dovrebbe stabilire una distanza fissa, identificata in 3 miglia nautiche (circa 5,5 chilometri) dalla costa. Questa teoria è stata poi utilizzata dalle maggiori potenze marittime come Stati Uniti e Gran Bretagna.

L’evoluzione del Diritto del Mare nel 1900

Il 1900 è stato l’anno di svolta del Diritto del Mare. In questo secolo tutti gli usi tradizionali del maree delle risorse marine sono stati affrontati e regolati con norme di codificazione internazionale. In passato le leggi del mare non erano scritte e codificate, ma vigevano regole non scritte e quindi difficili da controllare.

Nel 1930 la Lega delle Nazioni ha cercato per la prima volta di codificare le Leggi del Mare, senza però riuscire completamente nell’impresa.
Il secondo tentativo fu fatto dalle Nazioni Unite nel 1958 e nel 1960 con la Convenzione di Ginevra. Anche in questo caso il quadro legale elaborato non ebbe completo successo, ma la negoziazione si focalizzò su alcune tematiche specifiche, per esempio l’Alto Mare.
Solo nel 1973 le Nazioni Unite riuscirono a trovare una modalità di lavoro e negoziazione che diede l’opportunità di lavorare a livello globale alla Convenzione sul Diritto del Mare.

Che cos’è la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare?

Nel 1973, le Nazioni Unite finalmente riuscirono a codificare le leggi del Diritto del Mare attraverso la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS). La Convenzione fu adottata nel 1982 a Montego Bay, in Giamaica.
La Convenzione necessitò di un certo numero di rettifiche, per questo entrò in vigore nel 1994 dopo essere stata approvata da tutti i partecipanti. Per modificare il testo finale devono essere riaperti i negoziati.

  • L’universalità dei partecipanti: le negoziazioni erano aperte a tutti gli Stati Membri delle Nazioni Unite, l’agenzia per l’energia atomica, il codice di giustizia internazionale, organizzazioni intergovernative, movimenti di liberazione nazionale e molti altri enti. Era una conferenza universale che garantiva la legittimità del processo di negoziazione.
  • La durata della negoziazione fu molto lunga: ci sono voluti 10 anni per completare il lavoro (1982) e 16 anni di lavoro da parte di Stati, osservatori e attori della comunità internazionale per produrre la Convenzione finale (1994).
  • Adottare una convenzione che tratti tutte le questioni relative al mare. La Convenzione finale è un documento molto completo, chiamato la Costituzione dell’Oceano, la cui portata geografica è enorme perché l’oceano copre più del 70% della superficie della Terra.

Come misura la linea di costa?

La linea di base, baseline in inglese, corrisponde al punto in cui si inizia a misurare la distanza dalla costa per stabilire il limite delle differenti zone. Nell’Articolo 5 della Convenzione è specificata la regola generale per definire e disegnare la linea di base.

La linea di base per misurare la vastità del mare territoriale è la linea di bassa marea lungo la costa, segnata su tutte le carte nautiche ufficialmente riconosciute dallo Stato costiero. Ma ci sono delle variazioni in base alla configurazione geografica della linea di costa, questioni storiche o economiche.

Alcuni esempi in cui si applicano eccezioni alla regola generale sono:

  • dove la linea di costa è profondamente frastagliata, incisa e presenta una frangia di isole lungo la costa nelle sue immediate vicinanze. In questo caso le linee di base seguono i punti più esterni della costa. Per esempio in Stati come Norvegia e Croazia.
  • baie storiche. Un esempio è il Golfo di Taranto, considerato parte delle acque territoriali italiane;
  • delta dei fiumi molto frastagliati, come in Bangladesh e Myanmar;
  • acque polari. Ci sono banchi di ghiaccio che si staccano dalla costa e quindi la linea di costa può cambiare;
  • stati arcipelagici (Stati composti da molte isole).

Dalla linea di base si inizia a misurare la distanza di tutte le altre aree definite dalla Convenzione.

Bibliografia:

  • https://www.un.org/depts/los/convention_agreements/texts/unclos/unclos_e.pdf
  • https://www.geopolitica.info/mare-relazioni-internazionali-parte3/
  • https://www.imo.org/en/OurWork/Legal/Pages/UnitedNationsConventionOnTheLawOfTheSea.aspx

Che cos’è il Trattato per la protezione dell’Alto Mare?

Copertina_Trattato Alto Mare

Da oggi, per una settimana, i leader mondiali si riuniscono nella sede delle Nazioni Unite di New York per negoziare un trattato per la protezione dell’oceano “Trattato per la protezione dell’Alto Mare” (UN High Seas Treaty). L’occasione è la quinta sessione della Conferenza intergovernativa sulla biodiversità marina delle aree al di là della giurisdizione nazionale (BBNJ).

L’Alto Mare è l’area di mare che si trova al di là della Zona Economica Esclusiva (ZEE) nazionale – oltre le 200 miglia nautiche dalla costa, se gli Stati hanno dichiarato la EEZ – e occupa circa due terzi dell’oceano. Questa zona fa parte delle acque internazionali, quindi al di fuori delle giurisdizioni nazionali, in cui tutti gli Stati hanno il diritto di pescare, navigare e fare ricerca, per esempio. Allo stesso tempo, l’Alto Mare svolge un ruolo vitale nel sostenere le attività di pesca, nel fornire habitat a specie cruciali per la salute del pianeta e nel mitigare l’impatto della crisi climatica.

Allo stesso tempo, nessun governo si assume la responsabilità della protezione e della gestione sostenibile delle risorse di Alto Mare, il che rende queste zone vulnerabili. Di conseguenza, alcuni degli ecosistemi più importanti del pianeta sono a rischio, con conseguente perdita di biodiversità e habitat. Secondo le stime, tra il 10% e il 15% delle specie marine è già a rischio estinzione.

Uno degli obiettivi del trattato è invertire il trend di declino della salute dell’oceano e della perdita di biodiversità ed ecosistemi per le generazioni future e per le popolazioni costiere che dipendono dal mare come fonte di cibo e sostentamento, reddito e svago.

Il dialogo per il Trattato per la protezione dell’Alto Mare si concluderà il 26 agosto e rappresenta il secondo momento del 2022 per trovare un terreno comune per l’oceano. La prima occasione è stata a fine giugno a Lisbona durante la Conferenza delle Nazioni Unite sull’Oceano.

Perché è importante il Trattato per la protezione dell’Alto Mare?

Circa il 70% dell’oceano è Alto Mare, l’ultima zona selvaggia e non propriamente regolamentata del pianeta. La vita marina che vive in queste zone è a rischio di sfruttamento, estinzione ed è vulnerabile alle crescenti minacce della crisi climatica, della pesca eccessiva e del traffico marittimo.
Poiché gli ecosistemi in Alto Mare sono scarsamente documentati, i ricercatori temono che gli organismi possano estinguersi prima di essere scoperti. Questo impedisce di studiare propriamente i ritmi di perdita di biodiversità del pianeta, sviluppare modelli previsionali sempre più accurati e accedere a nuove opportunità per le industrie farmaceutiche e di cosmesi.

Ad oggi, la gestione delle attività in mare e la tutela della biodiversità marina sono regolate dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS), firmata nel 1982 e rettificata da 158 Stati Membri. Questa Convenzione ha dei limiti, soprattutto sulle tematiche che riguardano l’Alto Mare e la tutela della biodiversità.

Gli Stati Membri delle Nazioni Unite, le Organizzazioni Non Governative, gli scienziati e i ricercatori ritengono che questo sia un momento cruciale per la definizione di un Trattato dell’Alto Mare che determinerà il futuro dell’oceano, soprattutto per quanto riguarda la gestione delle sue risorse. In occasione dei precedenti negoziati, l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) ha affermato che la “tradizionale natura frammentata della governance dell’oceano” ha impedito un’efficace protezione dell’Alto Mare.

Il Trattato per la protezione dell’Alto Mare è in fase di negoziazione da anni, ma gli Stati Membri non sono ancora riusciti a trovare un accordo. L’obiettivo ora è quello di rendere il trattato legalmente vincolante. Per questo, almeno 49 Paesi, tra cui il Regno Unito e i Paesi dell’Unione Europea, hanno dichiarato di impegnarsi maggiormente per riuscire a raggiungere un accordo.

Eliann Dipp_Pexels_Trattato di Alto Mare
Eliann Dipp da Pexels

Quali sono i punti salienti del Trattato dell’Alto Mare?

In questi ultimi decenni l’avanzare della tecnologia e delle strumentazioni innovative hanno reso l’Alto Mare sempre più accessibile e, di conseguenza, le sue risorse sempre più facilmente estraibili. Anche per questo motivo è importante affiancare questa storica regolamentazione con uno strumento più attuale, olistico e che includa leggi di tutela dell’Alto Mare e della biodiversità che si trova oltre i confini di giurisdizione nazionale.

Uno degli obiettivi più ambiziosi del Trattato per la protezione dell’Alto Mare è quello di tutelare il 30% dell’oceano entro il 2030 attraverso la creazione di una rete di Aree Marine Protette. Attualmente solo l’1,2% dell’oceano è sotto protezione totale.
Circa due anni fa, cinquanta Stati hanno dichiarato di impegnarsi per raggiungere l’obiettivo di protezione del 30% delle terre e dei mari del pianeta. Ma senza un accordo, questi impegni non hanno alcuna base giuridica in Alto Mare.

Inoltre, prima di autorizzare attività commerciali in Alto Mare, come l’estrazione di minerali e risorse in acque profonde, si dovranno effettuare valutazioni di impatto ambientale.

Infine, la negoziazione offre l’opportunità di discutere la tutela della biodiversità marina e delle specie migratorie; la gestione della ricerca di risorse genetiche marine che possono avere un valore commerciale o scientifico per lo sviluppo di farmaci, vaccini e altre applicazioni farmaceutiche, chimiche e cosmetiche; la condivisione dei beni comuni; e i benefici legati al trasferimento di conoscenza e tecnologie.

Un accordo sul Trattato sulla protezione dell’Alto Mare contribuisce notevolmente al raggiungimento dei target dell’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile 14 dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.

Obiettivo di Sviluppo Sostenibile 14_Decennio del Mare
Credit: Matt Curnock / Ocean Image Bank

A supporto del Trattato dell’Alto Mare

Peter Thomson, Inviato Speciale delle Nazioni Unite per l’Oceano ha espresso parole di speranza per la riuscita della negoziazione attraverso i canali di CBS News:

Dopo i grandi successi ottenuti quest’anno per la salute dell’oceano grazie all’Assemblea dell’Ambiente delle Nazioni Unite a Nairobi (UNNEA 5), dedicata all’inquinamento da plastica in mare, alla Conferenza ministeriale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio di Ginevra dedicata all’esclusione di sussidi a metodologie di pesca dannose e alla Conferenza delle Nazioni Unite sull’Oceano (UNOC) di Lisbona, sono fiducioso che gli Stati Membri cavalcheranno l’onda positiva del 2022 verso la tutela della salute dell’oceano concludendo un trattato per l’Alto Mare a New York questo mese.

Peter Thomson, Inviato Speciale delle Nazioni Unite per l’Oceano

Molly Powers-Tora, sostenitrice delle tematiche dell’oceano, ha ribadito l’importanza storica di questi negoziati:

Questa settimana tutti gli occhi sono puntati sulle Nazioni Unite per verificare se riusciremo a raggiungere un consenso su un accordo internazionale che ci permetterà di proteggere e gestire in modo sostenibile il nostro Oceano per le generazioni future.

Molly Powers-Tora, Ocean Advocate

Miguel de Serpa Sorares, che ha tenuto un discorso di apertura per dare il via ai negoziati ha proclamato:

Dato il terribile stato dell’oceano del mondo, è giunto il momento di agire. Come esprimere meglio la nostra determinazione ad agire se non concludendo un accordo resiliente che garantisca la conservazione e l’uso sostenibile della biodiversità nell’oceano globale.

Miguel de Serpa Sorares, Under-Secretary-General for Legal Affairs and UN Legal Counsel

Bibliografia:

Che cos’è il bluewashing? Come possiamo riconoscerlo?

Che cos'è il bluewashing_Decennio del Mare

Il termine greenwashing ormai fa parte della nostra quotidianità, ma cosa succede all’oceano? Sappiamo davvero che cos’è il greenwashing? E il bluewashing? E siamo in grado di riconoscerli e stare alla larga?

Si sente molto parlare di greenwashing, letteralmente «lavarsi la coscienza facendo qualcosa di verde». Con questo termine anglosassone si definisce il cosiddetto “ecologismo o ambientalismo di facciata”.
Il termine greenwashing deriva dall’espressione figurativa whitewashing, utilizzata comunemente per indicare un tentativo di occultare la verità per proteggere o migliorare la reputazione di enti, aziende, prodotti.

Quindi, che cos’è il bluewashing?

Per il bluewashing vale lo stesso discorso del greenwashing ma interessa tutte le parti “blu” del pianeta e gli organismi che le abitano: oceano, mari, fiumi, laghi.

Un oceano sempre più caldo e acido, perdita di biodiversità e di conseguenza eventi atmosferici più estremi come siccità, incendi, alluvioni e uragani, sono i primi segnali dell’avanzamento della crisi climatica. Non abbiamo molto tempo per agire. Per questo, come ha affermato il Segretario Generale delle Nazioni Unite ad inizio 2022, non possiamo permetterci di avere azioni di greenwashing in atto.

Il mondo è in corsa contro il tempo. Non possiamo permetterci di fare passi indietro, di fare passi falsi o di fare qualsiasi forma di greenwashing.
Dobbiamo garantire che gli impegni per l’azzeramento delle emissioni siano ambiziosi e credibili e che siano in linea con i più alti standard di integrità e trasparenza ambientale. Devono inoltre essere attuabili e tenere conto delle diverse circostanze.

Antonio Guterres, United Nations Secretary General

Dal greenwashing al bluewashing: una definizione delle strategie più utilizzate

Il greenwashing e il bluewashing sono strategie di marketing e comunicazione messe in atto da aziende, enti, organizzazioni e singoli individui per far passare un’immagine di sé attenta all’ambiente e sostenibile. In realtà, queste strategie cercano solo di spostare l’attenzione del consumatore dall’impatto negativo che l’ente coinvolto genera sull’ambiente.

Una strategia atta ad aumentare le vendite di un prodotto o migliorare la propria reputazione per acquisire nuovi clienti, aumentare il fatturato o rendersi leader in un determinato settore, senza però impegnarsi davvero per risolvere i problemi e rendere virtuoso il proprio operato.

In realtà, la comunicazione che viene portata avanti spesso omette informazioni importanti, che svelerebbero il vero impatto dell’azienda o dell’ente sull’ambiente. Termini generici e poco definiti ingannano i clienti facendo credere che l’azienda stia facendo più di quanto non faccia in realtà.

Con il termine greenwashing, ci si riferisce ad azioni volte più alla parte “verde” del pianeta: boschi, foreste e spazi green delle nostre città. Ma noi sappiamo che la stessa attenzione la merita anche il “blue” perché il 70% della superficie del pianeta è coperta da acqua, perché l’oceano è il più grande alleato che abbiamo nella mitigazione della crisi climatica e perché la nostra vita dipende dal blu. Anche l’oceano, le risorse idriche e la biodiversità marina non sono estranei a queste pratiche commerciali di facciata. Ed è qui che nasce il bluewashing.

Obiettivo di Sviluppo Sostenibile 14_Decennio del Mare

Il termine bluewashing non si interessa solo all’oceano, “blu” deriva anche dal colore del logo delle Nazioni Unite. Molte aziende, organizzazioni e enti di vario titolo cercano di associare il proprio nome alle Nazioni Unite (ONU) al solo scopo di pubblicizzare le proprie attività senza però davvero intraprendere azioni a supporto dei programmi ONU.

Un esempio è l’utilizzo degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030 come copertura per lavorare sotto l’egida dei principi formulati dall’ONU, ma senza operare e collaborare effettivamente in quella direzione.

È molto più semplice ed economicamente vantaggioso avviare una campagna di comunicazione e di marketing rispetto a rivedere tutta la strategia e le attività per includere buone pratiche all’interno del lavoro quotidiano.

Come riconoscere il bluewashing?

Con l’aumento dell’interesse delle persone e dei giovani verso le tematiche ambientali e sociali, ci sono sempre più enti che cercano di cavalcare l’onda per ingrandire la propria community e i propri clienti utilizzando tecniche sempre diverse e per questo sempre più difficili da riconoscere, soprattutto per chi non tratta quotidianamente questi argomenti.

Il bluewashing, va oltre il singolo prodotto, si può ritrovare anche nel vero e proprio operato e nella strategia attuata dall’azienda, ente, organizzazione o persona. Trasparenza, soprattutto, e coerenza a lungo termine sono i primi elementi che possiamo utilizzare per valutare l’operato di un determinato ente, azienda o organizzazione.

Alcuni punti per riconoscere in modo semplice alcune delle più comuni azioni di bluewashing:

1. Comunicazione accattivante e generica

La comunicazione è generica e non approfondisce i dettagli perché eseguita in assenza di un impegno concreto e maturo da parte dell’ente. Spesso vengono utilizzati termini come “sostenibile”, “ocean-friendly”, “green”, “basso impatto”, “zero emission”, “100% materiale riciclato”, “carbon neutral” senza riportare tutte le informazioni necessarie per poter valutare il vero impatto ambientale del prodotto.

In aggiunta, per attrarre il cliente e promuovere prodotti “sostenibili” spesso vengono utilizzati colori che non rispecchiano quelli soliti dell’azienda ma che richiamano la natura. Il beige, il verde e il blu sono i colori preferiti per le campagne di sostenibilità ambientale. In questo modo, il prodotto sembra avere un impatto positivo sull’ambiente, ma solo all’apparenza.

Per questo è importante non farsi ammaliare da una scritta o da una grafica ma bisogna andare a fondo. Il modo migliore per capire se un marchio è davvero responsabile dal punto di vista ambientale e sociale è cercare le informazioni nascoste in un prodotto cosiddetto ecologico. Sebbene un’azienda possa indicare l’uso di materiali riciclati o organici in un prodotto, potrebbe non rivelare come o dove il prodotto è stato realizzato o come sono stati reperiti i materiali.

Ricercare prove e dati: i numeri sono sempre più affidabili delle parole. Leggere le etichette, il sito web, cercare articoli e fare domande sulla tematica di cui parlano è fondamentale per capire quanto ne sanno, quanto si stanno impegnando e quanto sono davvero interessati all’argomento che stanno comunicando.

Un esercizio che possiamo fare? Provare a scegliere una crema solare a basso impatto sul mare da utilizzare questa estate.

Che cos'è il bluewashing_Decennio del Mare
Photo by OCG Saving The Ocean on Unsplash

2. È un’iniziativa a breve termine

La temporalità dell’azione è importante, per essere concreta deve esserci un piano a lungo termine.

Se l’iniziativa, progetto o prodotto, è parte di un’edizione speciale, esclusiva, una tantum o a breve termine deve far suonare un campanello d’allarme. Non è raro infatti che vengano attivate campagne limitate solo ad una linea o ad un determinato arco temporale, come per esempio alla Giornata Mondiale dell’Oceano, dell’Ambiente o del Pianeta.

Altri esempi possono essere campagne di pulizie delle spiagge supportate da aziende non proprio attente all’ambiente. Di sicuro le pulizie delle spiagge hanno un impatto positivo sull’ambiente e, se fatte nel modo corretto, sono un ottimo strumento per fare educazione ambientale e per fornire dati a università e centri di ricerca. Ma se la pulizia viene svolta e promossa dall’ente solo a scopo comunicativo, resta un’attività fine a sé stessa per ripulire la reputazione e l’immagine del marchio.

Non facciamoci ingannare da una pubblicità, cerchiamo di sostenere chi si impegna quotidianamente per migliorare il proprio operato e l’ambiente in cui tutti noi viviamo.
Solo informandoci possiamo essere sicuri di investire nei marchi che adottano un approccio olistico, trovando nuovi modelli di business che integrino la sostenibilità al centro, invece di concentrarsi solo su un prodotto, una collezione o iniziativa specifica.

3. Non coinvolge istituzioni, centri di ricerca o enti esperti del settore

Spesso è un’iniziativa portata avanti da un’azienda e una sola organizzazione, senza coinvolgere le istituzioni o enti che lavorano quotidianamente per la tematica. Capire chi sta dietro la campagna e quali sono gli scopi finali dell’iniziativa è un passo in più per inquadrare l’azione all’interno di una strategia più ampia.

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©Matt Curnock – Ocean Image Bank

4. Privatizza un bene comune

Sulla scia di progetti internazionali come la UN Decade of Ecosystem Restoration, molti enti, organizzazioni e aziende hanno attivato o stanno per avviare progetti di rigenerazione e ripristino di ecosistemi per supportare o accelerare il recupero di un habitat o ecosistema specifico in seguito a danni, degrado o distruzione.
Questi progetti riguardano i boschi e le foreste ma anche il mare, attraverso iniziative di ripristino di scogliere coralline, foreste di mangrovie, Cystoseira (ora Ericaria) o praterie di Posidonia. E fin qui, tutto regolare.

Questi progetti però richiedono molta cautela, attenzione e conoscenza del settore. Posizionare una specie sbagliata può provocare più danni che benefici all’ambiente. Allo stesso modo, attuare un progetto di rigenerazione senza eradicare il problema che ha portato al danneggiamento dell’ecosistema è un investimento a doppia perdita: capitale e ambientale.
Perché i progetti di rigenerazione, riforestazione e ripristino abbiano successo è necessario un lavoro di totale collaborazione con università, enti di ricerca, istituzioni, aziende e comunità locali.

Per questo, è fondamentale – prima di comprare o adottare una pianta o un corallo, per esempio – informarsi sulla natura e sulle premesse dell’intero progetto che il nostro acquisto andrebbe a sostenere.

Cosa possiamo fare noi?

Ricordiamo che il greenwashing non è necessariamente legato all’attività di un’azienda, ma può essere portato avanti anche da persone, organizzazioni, fondazioni e enti pubblici più o meno consciamente.
Attualmente la sostenibilità è un trend in forte crescita e per farsi trovare aggiornati e non rischiare di sostenere azioni di greenwashing e bluewashing bisogna investire tempo, informarsi e studiare molto.

Prima di acquistare un prodotto o supportare un ente o un’iniziativa è importante informarsi e fare domande. Se l’ente è trasparente e non ha nulla da nascondere sarà disponibile a fornire tutte le richieste di cui avete bisogno e rispondere a dubbi e curiosità.

Come ha riportato la Specialista di Programma di IOC-UNESCO Francesca Santoro al Festival Green&Blue di la Repubblica, non è facile. L’importante è far capire agli enti che i progetti vanno creati su valori comuni. Non è semplicemente uno scambio di denaro tra profit e no-profit, cliente e azienda, o tra profit e ricerca. Le aziende possono cambiare modo di produrre e comunicare meglio le loro attività.

Non è facile trovare realtà che lavorano con la missione comune di contribuire al benessere ambientale senza avere come scopo la ricerca di un vantaggio di mercato e commerciale. La responsabilità è di ognuno di noi. Anche nella scelta di chi supportare.

Fonti:

https://news.un.org/en/story/2022/04/1117062

https://www.theguardian.com/sustainable-business/2016/aug/20/greenwashing-environmentalism-lies-companies

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0195925520301529

https://www.decadeonrestoration.org

Chi era James Lovelock: dalla Cornovaglia alla NASA, una vita per la scienza

Chi era James Lovelock_Decennio del Mare

James Lovelock è stato uno scienziato, un ricercatore indipendente e uno scrittore britannico noto in tutto il mondo per aver ipotizzato la Teoria di Gaia, che descrive la Terra come un essere vivente in cui organismi e materia sono interconnessi.

Dalla Terra allo spazio, una vita per la scienza

Nato nel 1919 in Inghilterra, James Lovelock si laurea in chimica all’Università di Manchester e si specializza in ricerca medica a Londra. Poi vola negli Stati Uniti dove lavora come ricercatore in prestigiose istituzioni come Yale e Harvard. 

Inizia a collaborare con la National Aeronautics and Space Administration, semplicemente nota come NASA, lavorando allo sviluppo di numerosi sensori e strumenti utili per la ricerca e la raccolta di dati atmosferici e nello spazio.

Lovelock realizzò uno strumento utile per identificare la presenza di Clorofluorocarburi (CFC) nell’atmosfera, gas sintetici ritenuti i principali responsabili della riduzione della quantità di ozono nell’atmosfera terrestre e quindi dell’aumento delle radiazioni UV che raggiungono la superficie terrestre.
Grazie a a questa scoperta, il 16 settembre 1987 fu firmato il protocollo di Montréal, un trattato internazionale negoziato con lo scopo di ridurre e la produzione e l’uso di sostanze che danneggiano lo strato di ozono. Trattato descritto da Kofi Annan, all’epoca Segretario Generale dell’ONU, come esempio di eccezionale cooperazione internazionale. 

Ma la sua collaborazione con la NASA andò oltre la Terra. Il ricercatore collaborò anche allo studio di Marte come possibile pianeta per la scoperta di forme di vita extraterrestri. Studiò la composizione dell’atmosfera di Marte e collaborò alla missione Viking progettando strumenti per l’analisi della composizione dell’atmosfera di Marte.

Chi era James Lovelock_Decennio del Mare
A simulated view of Mars as it would be seen from the Mars Global Surveyor spacecraft ©NASA da Unsplash

La Teoria (o ipotesi) di Gaia

l motivo per cui James Lovelock è famoso ai più è la Teoria di Gaia, il cui nome deriva dalla dea greca della Terra, sviluppata negli anni ’70 durante la collaborazione con la NASA e la biologa statunitense Lynn Margulis. 

La Terra è vista come un sistema di autoregolazione che mantiene le proprie condizioni chimico-fisiche (temperatura media, pH, quantità di gas…) idonee allo sviluppo della vita, proprio grazie all’attività degli organismi viventi. Fin dall’origine della vita, gli organismi hanno avuto un profondo effetto sulla composizione dell’atmosfera e sul clima della Terra.

Questa teoria gettò le basi per una nuova modalità di fare scienza e ricerca avviando un nuovo modo di guardare all’ecologia e all’evoluzione globale, discostandosi così dall’immagine classica dell’ecologia come risposta biologica a una serie di condizioni fisiche. L’idea di una co-evoluzione della biologia e dell’ambiente fisico, in cui una influenza l’altro, è stata suggerita già a metà del 1700, ma mai con la stessa forza di Gaia, che rivendica il potere della vita di controllare e influire sull’ambiente abiotico. 

In tempi più recenti, l’ipotesi originale di Gaia è stata più volte revisionata come conseguenza a una maggiore conoscenza scientifica. Le ricerche sui comportamenti intrinseci dei sistemi complessi possono contribuire ulteriormente a chiarire la possibilità di applicare le nozioni gaiane ai sistemi ecologici e fisici della Terra.

L’ipotesi Gaia è descritta nel libro pubblicato nel 1979 “Gaia, nuove idee sulla’ecologia”.

Chi era James Lovelock_Decennio del Mare
View of the Earth as seen by the Apollo 17 crew traveling toward the moon. ©NASA da Unsplash

Lo studio del cambiamento climatico e le allerte, già più di 50 anni fa

Lovelock non si è dedicato solo all’ipotesi Gaia e al lavoro per la NASA sullo spazio, ma ha trascorso la sua vita a sostenere di intraprendere misure contro la crisi climatica, iniziando molti anni prima che altri ricercatori e attivisti prendessero atto della crisi in corso.

Jonathan Watts, redattore globale per l’ambiente del Guardian, riporta che senza gli studi e le azioni di Lovelock, i movimenti ambientalisti di tutto il mondo sarebbero nati più tardi e avrebbero preso una strada molto diversa. Infatti, negli anni ’60 ha lanciato uno dei primi avvertimenti sul fatto che i combustibili fossili stessero destabilizzando il clima. 

Prima dell’inizio della Conferenza delle Parti di Glasgow (COP26), in un articolo scritto da lui per il Guardian a novembre 2021, in cui qui riportiamo una parte tradotta in italiano, Lovelock ha riferito che:

Non so se sia troppo tardi per l’umanità per evitare una catastrofe climatica, ma sono certo che non ci siano possibilità se continuiamo a trattare il riscaldamento globale e la distruzione della natura come problemi separati. Questa divisione è un errore, come quello commesso dalle università quando insegnano chimica in una classe diversa da biologia e fisica. È impossibile comprendere queste materie in modo isolato, perché sono interconnesse.
Lo stesso vale per gli organismi viventi che influenzano notevolmente l’ambiente globale. La composizione dell’atmosfera terrestre e la temperatura della superficie sono attivamente mantenute e regolate dalla biosfera, dalla vita.

Il riscaldamento globale è causato in gran parte dall’estrazione e dalla combustione di combustibili fossili a partire dalla metà del XIX secolo, i quali rilasciano metano, biossido di carbonio e altri gas serra nell’atmosfera. Questi assorbono il calore radiante e ne impediscono la fuoriuscita dalla Terra, causando il riscaldamento globale.

Gli avvertimenti che un tempo sembravano scenari di fantascienza si stanno ora avverando. Stiamo entrando in un’era in cui la temperatura e il livello del mare aumenteranno di decennio in decennio fino a rendere il mondo irriconoscibile. Potrebbero esserci altre sorprese. La natura è non lineare e imprevedibile, soprattutto in un momento di transizione. 

James Lovelock per il Guardian, novembre 2021

Le ricerche e le posizioni di Lovelock sono state più volte contraddette e pensate come controverse dai colleghi, partendo dall’Ipotesi di Gaia fino al sostegno dell’energia nucleare. Ora molti sono d’accordo con il suo punto di vista.

Chi era James Lovelock_Decennio del Mare
©Markus Spiske da Unsplash

Bibliografia:

Qual è l’impatto delle creme solari sul mare?

Ormai abbiamo imparato che è assolutamente necessario utilizzare delle creme per proteggerci dai dannosi raggi solari, così da evitare le dolorose scottature e prevenire danni a lungo termine alla nostra pelle. Ma bisogna fare attenzione quando si acquista la crema: l’impatto delle creme solari in mare può creare danni ad alcune specie.

Perchè le creme solari danneggiano l’oceano?

Diversi studi hanno dimostrato come le creme solari abbiano un forte impatto sulla salute del nostro oceano e di molti suoi abitanti. Non a caso infatti, diverse mete tropicali dove esiste un consolidato mercato turistico costiero e marittimo ne hanno bandito l’utilizzo. Un esempio eclatante è quello del Governo delle Hawaii, che nel 2018 ha emanato l’Hawaii Reef Bill, per mettere al bando l’utilizzo di filtri solari contenenti alcune sostanze chimiche ritenute dannose per l’ecosistema marino.

Antonio Gabola from Unsplash

Nello specifico, le creme solari:

  • possono alterare la crescita ed il processo fotosintetico delle alghe verdi;
  • possono accumularsi nel tessuto dei coralli, causandone lo sbiancamento, alterazioni genetiche e fisiche del corallo o, ancora, causarne la morte;
  • possono provocare malformazioni nelle larve dei giovani molluschi;
  • possono danneggiare il sistema immunitario e riproduttivo dei ricci di mare o causarne la morte;
  • possono ridurre la fertilità e generare organi maschili negli individui femmina dei pesci (questa alterazione viene detta  “imposex”, che significa sovrapposizione di caratteri maschili a quelli femminili presenti nelle femmine);
  • possono accumularsi nei tessuti dei delfini e trasferire questo accumulo di composti chimici nella prole.

Le sostanze chimiche dannose all’interno delle creme solari appartengono alla categoria UVF, ovvero filtri ultravioletti, necessari ad assorbire e riflettere i raggi UV-A e UV-B. Si tratta di sostanze sia organiche (ad esempio benzofenoni, p-aminobenzoati e canfora) sia inorganiche [ad esempio ossidi di nanoparticelle: biossido di titanio (TiO2) e ossido di zinco (ZnO)]. I componenti delle protezioni solari entrano nell’ambiente marino, disperdendosi sia nella colonna d’acqua sia nei sedimenti, come conseguenza dell’immissione diretta da parte dei bagnanti ma anche, indirettamente, attraverso gli scarichi di acque reflue domestiche e industriali. Questi inquinanti emergenti sono talmente diffusi che stanno cominciando ad intaccare anche i bacini di acqua dolce come fiumi e laghi.

Posidonia oceanica: quanto è sensibile questa pianta marina mediterranea alle creme solari?

Alcuni filtri solari inquinanti come ossibenzone (BP3), 4-metilbenzilidene canfora (4-MBC), metilparabeni, avobenzone 4-metile, benzofenone (BP4), benzotriazole (MeBZT) sono stati ritrovati anche nelle fronde e nei rizomi della Posidonia oceanica. Posidonia è una pianta marina endemica del Mediterraneo che si estende in ampie praterie e che offre numerosi servizi ecosistemici: è casa per moltissime specie marine, soprattutto in fase giovanile, fornisce protezione dall’erosione costiera e sequestra biossido di carbonio dall’atmosfera.

Benjamin L. Jones from Unsplash

L’accumulo di queste sostanze tossiche all’interno di Posidonia ha effetti ancora incerti, ma gli studiosi sono già in allerta sulle possibili conseguenze sia a livello fisiologico – come le alterazioni dei processi riproduttivi e di fotosintesi – sia a livello ecosistemico -.

Considerando la conformazione del Mar Mediterraneo in quanto bacino semichiuso e con ridotto ricircolo di acqua, i livelli di inquinanti possono raggiungere concentrazioni elevate in poco tempo. Da tenere conto è anche la forte pressione antropica presente in quest’area data dalle attività industriali e dal turismo, l’immissione di nutrienti e le ondate di calore che aumentano repentinamente la temperatura delle acque. Tutti questi fattori possono produrre effetti sinergici, mettendo a dura prova la sopravvivenza di questa pianta marina.

Vista l’importanza chiave di Posidonia in questo ecosistema, è bene diffondere la consapevolezza legata ai danni ambientali causati da queste sostanze inquinanti contenute all’interno delle protezioni solari, regolamentandone l’uso e fornendo alternative sostenibili per la protezione dei bagnanti. La perdita delle praterie di Posidonia si è già dimostrata fortemente dannosa in diverse aree costiere, bisogna agire per tutelarla.

Attenzione al greenwashing e al bluewashing!

Nonostante l’emergenza causata da questi prodotti, non esiste ancora una legislazione chiara riguardo l’utilizzo dei filtri solari dannosi in molte parti del Mediterraneo. Con l’attenzione mediatica che sta finalmente ricevendo l’oceano ed il tema della sostenibilità in generale, alcuni brand fanno leva su queste tematiche, mettendo in commercio creme “sicure per la barriera corallina”. Viene assicurata infatti l’assenza di ossibenzone, ma questi prodotti contengono comunque altri filtri solari dannosi per l’ecosistema marino. Per questo è importante leggere bene l’INCI e non fidarsi solo di un bollino presente nella confezione.

Cosa possiamo fare?

È cruciale informarsi prima dell’acquisto. Oltre all’acquisto di creme ocean-friendly, quindi prive dei composti chimici prima menzionati, un semplice esempio da seguire per ridurre il consumo di creme solari e diminuire l’impatto sull’ambiente marino è quello di evitare le ore più calde e proteggersi dal sole con gli ombrelloni, o indossando indumenti appositi anche mentre si fa il bagno in mare.

Charl Durand by Pexels

Bibliografia:

  • Nona S.R. Agawin, Adrià Sunyer-Caldú, M. Silvia Díaz-Cruz, Aida Frank-Comas, Manuela Gertrudis García-Márquez, Antonio Tovar-Sánchez, Mediterranean seagrass Posidonia oceanica accumulates sunscreen UV filters, Marine Pollution Bulletin, Volume 176, 2022

Estate al fresco: le raccomandazioni UNESCO per stare bene rispettando l’ambiente

Estate al fresco

Anche se dipende molto dal modello utilizzato, in generale l’aria condizionata ha un grande impatto sull’ambiente in termini di emissioni di gas serra, produzione di calore in eccesso e immissione di inquinanti nell’ambiente. Il motivo principale si trova nell’utilizzo di sostanze refrigeranti, che rilasciano gas serra nell’atmosfera in quantità circa pari al doppio delle emissioni dovute al consumo di elettricità derivante da fonti fossili. Vi assicuriamo che si può passare l’estate al fresco limitando l’utilizzo di aria condizionata se si mettono in atto piccoli accorgimenti.

Oggi, l’utilizzo dei condizionatori per stare al fresco rappresenta quasi il 20% dell’elettricità totale utilizzata negli edifici di tutto il mondo. Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia, le emissioni di gas serra legate all’aria condizionata raddoppieranno tra il 2016 e il 2050. In Francia, per esempio, l’ADEME ha stimato che l’aria condizionata da sola rappresenta già il 5% delle emissioni dell’intero settore edilizio.
Oggi, in Italia, circa il 30 per cento della popolazione possiede un condizionatore, secondo uno studio condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università della California di Berkeley e dell’Università tedesca di Mannheim e pubblicato nel 2021, nel 2050 sarà il 50 per cento.

I nostri tentativi di rinfrescarci, in realtà contribuiscono a rendere il pianeta sempre più caldo. Se da un lato può essere necessario usare l’aria condizionata per le persone vulnerabili e per condizioni specifiche, dall’altro è fondamentale iniziare a conoscere e attuare sei semplici azioni da intraprendere in città, a casa e in ufficio per passare l’estate al fresco limitando l’uso dell’aria condizionata.

Estate al fresco
Thomas Layland da Unsplash

1. Creare un ambiente ombreggiato, limitando l’ingresso del sole

Quando il sole inizia a splendere dalla finestra, cerca di limitare l’ingresso utilizzando delle tende, soprattutto se le finestre sono orientate a sud e a ovest. Alcuni edifici lasciano comunque passare la luce, mentre bloccano efficacemente l’esposizione diretta al sole.
Per esempio, quando esci di casa al mattino ricordati di tirare un po’ giù le tapparelle o chiudi le finestre quando la temperatura esterna è superiore a quella interna. Queste piccole azioni ti permetteranno di mantenere un ambiente fresco.

2. Circondarsi di piante

Circondarsi di piante contribuisce a raffreddare l’atmosfera della stanza o per isolare la casa dall’ambiente esterno. Le piante contribuiscono anche ad aumentare l’umidità della sala.

Estate al fresco
Patrick Perkins da Unsplash

3. Lasciare circolare l’aria di notte

Quando la giornata sta per finire e l’aria si rinfresca, apri tutte le finestre per far circolare il più possibile l’aria negli spazi interni della casa. Rinfrescare l’ambiente durante la notte è uno dei metodi migliori per passare le giornate estive al fresco.

4. Farsi aiutare dall’umidità

Mettere dei secchi d’acqua nella stanza, bloccare la finestra con lenzuola bagnate o aggiungere altri oggetti umidi può rinfrescare l’atmosfera intorno a voi.

Estate al fresco
Sun Studio Creative da Unsplash

5. Vestirsi nel modo giusto: abiti ampi e tessuti naturali

Scegliere un abbigliamento adeguato quando fa caldo è fondamentale per restare freschi d’estate. Vestiti ampi, di tessuti naturali e dai colori chiari sono le opzioni migliori da scegliere per proteggersi dal caldo: lino, cotone organico e canapa aiutano la pelle a respirare e a regolare la temperatura corporea.
Non dimenticate di indossare un cappello e gli occhiali da sole per proteggervi dai raggi solari se uscite all’aperto.

6. Rimanere idratati e mangiare i cibi giusti

Anche il cibo ha un ruolo importante per aiutarci. Bere acqua a sufficienza è fondamentale per evitare lo stress da calore e diminuire la probabilità di essere soggetti a colpi di calore.
Inoltre, il cibo che si mangia ha un impatto più o meno positivo sul riscaldamento corporeo. Privilegiare pasti freschi, ricchi di frutta e verdura, sali minerali e vitamine è un passo avanti per aiutare il nostro corpo a regolarsi durante le stagioni più calde. Evitare di mangiare proteine animali e pasti altamente calorici è un buon inizio.

Estate al fresco
Sahand Babali da Unsplash

7. Stare a contatto con la natura

Durante il tempo libero e le pause pranzo cercare di stare all’aria aperta preferendo zone alberate e ombreggiate.
Nel weekend, cercare di uscire dalla città facendo giri in bicicletta, passeggiate in montagna o lungo un fiume, bagni al mare e esplorando i parchi naturali e le aree protette della zona. Qual è il luogo migliore per passare l’estate al fresco se non stando in mezzo alla natura?

Estate al fresco
Madison Nickel da Unsplash

8. Se proprio bisogna utilizzare l’aria condizionata…

Infine, se proprio si deve utilizzare l’aria condizionata, ricordati di:

  • Scegliere bene il sistema, poiché l’impronta ecologica varia notevolmente da un modello all’altro.
  • Moderare il suo utilizzo. Per esempio, impostare la temperatura a 27°C invece che a 22 può dimezzare il consumo energetico dell’apparecchio.

Bibliografia:

UNESCO: https://unesco.sharepoint.com/sites/sustainable-unesco/SitePages/Stay-cool-in-the-summer-while-protecting-the-environment.aspx?e=ChRTaGFyZVBvaW50TmV3c0RpZ2VzdBIUU2hhcmVQb2ludE5ld3NEaWdlc3QaCwikg4Pk+uTvOhAFIiQ5ZTZmNGY2NS05ZjBiLTM3YjQtZWM3Zi1iYmY4YjJmZDlmYzkoAg%3d%3d_2_1_3_4_2&at=38

UNESCO Staff guide: https://unesdoc.unesco.org/ark:/48223/pf0000375334/PDF/375334eng.pdf.multi

Salinità bacini oceanici: chi è il più salato?

L’articolo indaga come varia la salinità nei diversi bacini oceanici, confrontandoli tra loro e scoprendo qual è il più salato e perché.

La salinità dell’acqua marina (chiamata salinità) varia notevolmente nei vari bacini oceanici. Gli scienziati si riferiscono alla salinità come parti per mille (ppm), che rappresenta la quantità totale di sale disciolto nell’acqua: grammi di sale disciolti in un chilogrammo di acqua.

Come si misura la salinità?

Gli strumenti utilizzati per misurare la salinità sono diversi, ma ricordiamo i principali:

  • Il rifrattometro: strumento di misura ottico che sfrutta le diverse lunghezze d’onda per determinare l’indice di rifrazione di una sostanza e misurare la concentrazione di sale nell’acqua.
  • Il densimetro: strumento per misurare direttamente la densità del liquido e quindi capirne la salinità.
  • Le immagini satellitari: satelliti come l’Aquarius della NASA, scattano immagini della stessa zona periodicamente, di solito con una frequenza settimanale. Questi satelliti sono in grado di calcolare e rappresentare la salinità utilizzando una scala di colori. Ogni colore rappresenta una determinata quantità di sostanze organiche ed inorganiche disciolte nell’acqua in quel preciso momento.
Crystalline salt formations on seashore under overcast sky – © Darya Chervatyuk by Pexels

Cosa influisce sulla salinità?

Le precipitazioni e l’evaporazione determinano la distribuzione della salinità, controllata anche dalle correnti d’acqua. Ma la salinità in una specifica parte dell’oceano dipende anche dal deflusso dei fiumi.
Vicino all’equatore, i tropici ricevono costantemente la maggior quantità di pioggia. Di conseguenza, l’acqua dolce che cade nell’oceano contribuisce a diminuire la salinità dell’acqua superficiale in quella regione. Man mano che ci si sposta verso i poli, le piogge diminuiscono e, con meno pioggia e più sole, aumenta l’evaporazione dell’acqua marina in superficie.

Alcuni laghi, come il Mono Lake in California e il Mar Caspio in Asia, sono ancora più salati. L’evaporazione può far sì che corpi idrici isolati diventino estremamente salati, o ipersalini. Un buon esempio è il Mar Morto. L’alto contenuto di sale del Mar Morto aumenta drasticamente la densità delle sue acque, consentendo agli esseri umani di galleggiare molto più che nell’oceano. I sali vengono lasciati quando l’acqua evapora da queste fonti d’acqua senza sbocco sul mare. I livelli di sale continuano ad aumentare nel tempo. Molti di questi laghi salini si trovano in luoghi aridi, con scarse precipitazioni e temperature calde durante il giorno.

Una curiosità sul Mar Morto

Il Mar Morto ha una salinità di 280 ppm, circa otto volte più salata dell’acqua marina media (35 ppm). È così salato che non esistono pesci o piante acquatiche che possano viverci, tuttavia, alcune colonie di batteri e microalghe sono riuscite ad adattarsi e sopravvivere a questo ecosistema iper-salato.

Perché l'oceano è salato_Decennio del Mare
© Pexels

Bacino dell’Oceano Pacifico

La salinità delle acque superficiali del bacino dell’Oceano Pacifico è fortemente influenzata dai venti, dalle precipitazioni e dai modelli di evaporazione. Le acque della fascia di calma di vento vicino all’Equatore hanno in genere salinità più basse di quelle della fascia degli alisei. Ciò è dovuto al fatto che vicino all’Equatore piove molto e l’evaporazione è scarsa; la salinità può arrivare a 34 ppm.
La salinità nelle zone aperte del sud-est, invece, può raggiungere i 37 ppm, mentre le salinità più basse, meno di 32 ppm, si trovano all’estremo nord del Pacifico.

Bacino dell’Oceano Atlantico

Le acque superficiali dell’Atlantico settentrionale hanno livelli di salinità che superano i 37 ppm, tra i più alti al mondo. I livelli di salinità nell’Atlantico meridionale sono più bassi, con circa 34,5 ppm.
Questa discrepanza, ad esempio, può essere spiegata dalla forte evaporazione del Mar Mediterraneo e dallo scarico di acqua ad alta salinità, che contribuisce a mantenere più alta la salinità dell’Atlantico settentrionale. 

Il Mar dei Sargassi, che copre circa 2 milioni di miglia quadrate e si trova a circa 2.000 miglia a ovest delle Isole Canarie, è la regione più salata dell’Atlantico settentrionale. L’alga marrone galleggiante “sargassum“, da cui deriva il nome del mare, separa il Mar dei Sargassi dall’oceano aperto.
L’elevata temperatura dell’acqua (fino a 28.3°C) e la lontananza del Mar dei Sargassi dalla terraferma sono causa della sua elevata salinità. Questo mare infatti non riceve afflussi di acqua dolce.

Una curiosità sul Mar Mediterraneo

Il Mar Mediterraneo, ad esempio, è più salato del resto del bacino dell’Oceano Atlantico. Studiando il sale del Mar Mediterraneo, gli scienziati hanno scoperto che 5,33 milioni di anni fa il Mar Mediterraneo si è prosciugato per un lungo periodo di tempo. Questo periodo è noto come Crisi di Salinità del Mediterraneo (MSC-Messinian Salinity Crisis).

Salinità bacini oceanici_Decennio del Mare 5
(1) L’acqua proveniente dall’Atlantico entra nel Mar Mediterraneo attraverso lo Stretto di Gibilterra; l’acqua dell’Atlantico ha una bassa salinità, quindi viaggia in superficie. (2) Una volta entrata nel Mar Mediterraneo, la salinità inizia ad aumentare a causa del basso apporto di acqua dolce e dell’elevata evaporazione. (3) A causa dell’elevata evaporazione sul lato orientale del Mediterraneo, la salinità aumenta così tanto che la sua densità aumenta e la fa affondare. (4) La corrente ad alta salinità torna verso lo Stretto di Gibilterra, (5) da dove esce e porta salinità alle acque dell’Atlantico. Nei punti A e B si sviluppano acque profonde, con concentrazioni saline molto elevate, che però non escono dal Mediterraneo. © Illustrazione di Esteban Gottfried Burguett

Bacino dell’Oceano Indiano

La salinità delle acque superficiali del bacino dell’Oceano Indiano varia da 32 a 37 ppm, con sostanziali variazioni regionali. La zona subtropicale dell’emisfero meridionale presenta un’elevata salinità superficiale, mentre le zone a bassa salinità vanno dall’Indonesia al Madagascar lungo 10° S. A 60°S, la salinità dell’acqua superficiale è compresa tra 33 e 34 ppt.

Il Mar Arabico ha uno strato superiore ad alta salinità, raggiungendo i 37ppm a causa degli alti tassi di evaporazione.

A causa del drenaggio di acqua dolce dai fiumi, la salinità dello strato superficiale del Golfo del Bengala è significativamente ridotta, meno di 32 ppm.

Una curiosità sul Mar Arabico

Il bacino settentrionale dell’Oceano Indiano presenta una salinità superficiale del mare dipolare, unica nel suo genere anche alla stessa fascia di latitudine. Ciò è dovuto al fatto che il Mar Arabico è dominato da regimi di alta e bassa evaporazione ed è la principale regione di deflusso delle acque ad alta salinità: Mar Rosso e Golfo Persico.
Al contrario, il Golfo del Bengala è caratterizzato da precipitazioni più abbondanti e dal deflusso di acqua dolce dai fiumi più grandi del mondo (Gange e Brahmaputra).

Tuttavia, il Mar Arabico e il Golfo del Bengala si scambiano acqua intorno allo Sri Lanka, mantenendo un equilibrio di acqua salata. 

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Salinità Oceano Indiano – ©Esteban Gottfried Burguett

Bacini dell’Oceano Artico e dell’Oceano Meridionale

Le basse salinità si verificano nei mari polari, dove l’acqua salata è diluita dallo scioglimento dei ghiacci e dalle continue precipitazioni. Anche i mari ricchi di foci di fiumi o le insenature costiere che ricevono un consistente deflusso dalle precipitazioni che cadono sulla terraferma possono avere basse salinità.
Sebbene il bacino dell’Oceano Artico sia generalmente più fresco rispetto agli altri oceani, con livelli di salinità che vanno da 30 a 34 ppm, i livelli di salinità variano da regione a regione e le aree con forte afflusso fluviale possono avere salinità ancora più basse.

D’altra parte, il bacino dell’Oceano Meridionale è caratterizzato da un’elevata salinità superficiale del mare (SSS) a nord del fronte subtropicale, grandi gradienti di salinità attraverso i principali fronti polari e bassa salinità superficiale nella zona antartica a sud del fronte polare.

Bibliografia

https://oceanservice.noaa.gov/facts/whysalty.html

https://oceanservice.noaa.gov/facts/oceanwater.html#:~:text=The%20ocean%20covers%20more%20than,be%20found%20in%20our%20ocean.

https://www.nhm.ac.uk/discover/quick-questions/why-is-the-sea-salty.html

https://www.usgs.gov/faqs/why-ocean-salty

https://www.britannica.com/story/why-is-the-ocean-salty

http://ponce.sdsu.edu/usgs_why_is_the_ocean_salty/usgs_why_is_the_ocean_salty.html

http://iprc.soest.hawaii.edu/users/jensen/jensenGRL01.pdf

https://www.google.com/search?q=arabic+and+bengal+sea+salinity&rlz=1C1GCEU_enIT992IT992&oq=arabic+and+bengal+sea+salinity&aqs=chrome..69i57j0i546.5409j0j7&sourceid=chrome&ie=UTF-8

https://www.nature.com/articles/23231

Perché l’oceano è salato?

Perché l'oceano è salato_Decennio del Mare

In questo articolo esamineremo le fonti di sale nel mare e risponderemo alla domanda: perché l’oceano è salato? Ma prima di rispondere a questa domanda, ripassiamo alcuni concetti base:

  1. Circa il 70% della superficie terrestre è coperta dall’oceano. Sul totale dell’acqua presente sulla Terra, il 3% è acqua dolce e quasi il 97% dell’acqua è salata
  1. I sei elementi chimici più abbondanti nell’oceano sono cloruro, sodio, potassio, solfato, magnesio e calcio, che costituiscono il 99% dei sali marini.
  1. Il punto di congelamento dell’acqua salata è di -2 °C; il punto di congelamento dell’acqua dolce è di 0 °C.
  1. L’acqua salata ha anche un’importanza economica. Per esempio, il sale marino che usiamo in cucina spesso proviene proprio dall’evaporazione dell’acqua di mare che è una fonte naturale di sodio.
Perché l'oceano è salato_Decennio del Mare
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Da dove proviene tutto il sale che si trova nell’oceano e nei suoi mari?

Il sale nell’oceano proviene principalmente da due fonti: 

1.Deflusso dal terreno

La pioggia trasporta ioni minerali dal terreno all’acqua. L’acqua piovana è leggermente acida, poiché una parte del biossido di carbonio presente nell’aria si dissolve in essa.
Quando la pioggia cade sulle rocce, queste rilasciano sali minerali, i quali si separano in ioni. Questi ioni vengono poi trasportati dall’acqua e finiscono in mare. Oltre il 90% di tutti gli ioni presenti nell’acqua salata sono sodio e cloruro, i principali ingredienti del sale usato in cucina.

2.Aperture o sfiatatoi nel fondo marino

Anche i fluidi idrotermali sono una fonte di sali nell’oceano. L’acqua filtra attraverso le fessure del fondo marino,  qui viene scaldata dal materiale lavico e magmatico proveniente dall’interno della Terra. L’aumento di temperatura da il via ad una serie di reazioni chimiche: l’acqua tende a perdere ossigeno, magnesio e solfati e a raccogliere metalli come ferro, zinco e rame dalle rocce circostanti.

Alcuni sali oceanici trovano la loro origine da eruzioni vulcaniche sottomarine, fenomeni che rilasciano i minerali direttamente in mare.

Perché l'oceano è salato_Decennio del Mare
Quang Nguyen Vinh by Pexles

Qual è l’effetto del sale nell’acqua?

A parità di temperatura, l’acqua di mare è più densa dell’acqua dolce a causa del sale che contiene. Questo accade perché le molecole di acqua (H₂O) si raggruppano intorno alle molecole di sale e il risultato è che l’acqua salata ha complessivamente un numero maggiore di molecole rispetto all’acqua dolce, rendendola più densa e facendola sprofondare sotto l’acqua dolce o meno densa.

I sali e i minerali sono utilizzati in gran parte anche dalla vita marina: gli organismi, ad esempio, rimuovono ferro, zinco e rame dall’acqua.

Le differenze di salinità e temperatura dell’acqua marina nei bacini oceanici creano quelle che conosciamo come masse d’acqua oceaniche. Queste masse con salinità e temperatura diverse rendono possibile lo spostamento dell’acqua e il trasporto di sostanze nutritive in tutto il mondo. Questo fenomeno è chiamato circolazione oceanica profonda e ha un ruolo fondamentale per la regolazione delle correnti e il trasporto di calore.

A causa della maggiore densità dell’acqua salata dell’oceano, persone, animali e altri oggetti galleggiano di più nell’acqua di mare che in quella dolce. Ogni bacino oceanico e mare ha delle determinate caratteristiche in termini di salinità, pensate a cosa succede nel Mar Morto. 

Perché l'oceano è salato_Decennio del Mare 2
Distribuzione masse d’acqua – Illustrazione di Esteban Gottfried Burguett

Bibliografia

Bibliografia

https://oceanservice.noaa.gov/facts/whysalty.html

https://oceanservice.noaa.gov/facts/oceanwater.html#:~:text=The%20ocean%20covers%20more%20than,be%20found%20in%20our%20ocean.

https://www.nhm.ac.uk/discover/quick-questions/why-is-the-sea-salty.html

https://www.usgs.gov/faqs/why-ocean-salty

https://www.britannica.com/story/why-is-the-ocean-salty

http://ponce.sdsu.edu/usgs_why_is_the_ocean_salty/usgs_why_is_the_ocean_salty.html

http://iprc.soest.hawaii.edu/users/jensen/jensenGRL01.pdf

https://www.google.com/search?q=arabic+and+bengal+sea+salinity&rlz=1C1GCEU_enIT992IT992&oq=arabic+and+bengal+sea+salinity&aqs=chrome..69i57j0i546.5409j0j7&sourceid=chrome&ie=UTF-8

Obiettivo di Sviluppo Sostenibile 14: vita sott’acqua

Obiettivo di Sviluppo Sostenibile 14_Decennio del Mare

L’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile 14 (OSS 14) è l’unica tabella di marcia concordata a livello globale per la conservazione e la gestione sostenibile delle risorse marine. La sua fedele attuazione è, quindi, la nostra migliore speranza di porre rimedio alle sfide dell’oceano. L’obiettivo 14 è una chiamata all’azione per i cittadini e i governi dell’intero pianeta. Gli esperti concordano sul fatto che i dieci target individuati possono riportare in equilibrio il rapporto tra l’oceano e l’essere umano.

“Vita sott’acqua” è un’area chiave degli obiettivi di sostenibilità dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite su scala globale. Gli attori civili di tutto il pianeta si stanno unendo per trovare nuove modalità per mobilitare l’azione per la conservazione, la tutela e l’uso sostenibile dell’oceano. 

Tutti gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS) sono strettamente collegati tra loro, come ha dichiarato Antonio Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite durante l’apertura della seconda Conferenza delle Nazioni Unite sull’Oceano a Lisbona (2022):

La nostra incapacità di prenderci cura dell’oceano avrà effetti a catena sull’intera Agenda 2030

Antonio Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite

L’impatto dell’OSS 14 non si limita solo alla vita sott’acqua e all’ambiente marino, ma influenza anche il corretto funzionamento delle tematiche sociali, culturali ed economiche e quindi mantenere integro l’intero spettro delle vite e delle culture umane. Ecco perché è fondamentale attuare azioni concrete per raggiungere gli obiettivi dell’OSS14.

Perché un obiettivo interamente dedicato all’oceano?

Abbiamo più volte parlato dell’importanza dell’oceano nella regolazione dei cicli naturali. Tuttavia, non è mai abbastanza sufficiente ricordare le meraviglie e le sfide che l’oceano deve affrontare al giorno d’oggi.

Nel 2015, gli Stati membri dell’ONU hanno formulato l’Agenda 2030, costituita da 17 Obiettivi per lo sviluppo Sostenibile (OSS), che toccano tutti gli ambiti della vita quotidiana. È impensabile guidare un cambiamento concreto per un rapporto più sostenibile tra l’uomo e la natura senza considerare l’oceano.

Obiettivo di Sviluppo Sostenibile 14_Decennio del Mare

L’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile 14 (OSS 14) affronta le sfide principali dell’oceano e suggerisce modi tangibili per affrontarle.

Dall’avvento della civiltà moderna, l’oceano è stato trattato come uno spazio privo di regole. Un eccesso di pesca senza precedenti e l’uso di metodi distruttivi, come quelli utilizzati dai pescherecci a strascico, hanno amplificato lo stress sugli organismi marini e causato il declino delle specie.
L’aumento delle emissioni di gas serra, con conseguente riscaldamento globale, stanno portando ad un aumento della temperatura e dell’acidificazione dell’oceano senza precedenti.
Inoltre, l’afflusso di nutrienti vegetali, dovuto principalmente a pratiche di produzione agricola industriale obsolete, ha alimentato l’eutrofizzazione degli ecosistemi marini.

Ogni fattore di stress, in base alla sua intensità e durata, può avere molti effetti negativi sulla vita marina. Tuttavia, i fattori di stress raramente si presentano in modo isolato. La vita marina, in qualsiasi zona dell’oceano, va incontro quotidianamente ad una combinazione unica di fattori di stress. Questi fattori agiscono in sinergia, per questo vengono chiamati stress multipli.

Questi impatti negativi sull’ambiente marino hanno causato gravi problematiche sociali ed economiche a livello globale. Per questo è richiesta un’azione collettiva e immediata per trovare soluzioni innovative e favorire il raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030.

Obiettivo di Sviluppo Sostenibile 14_Decennio del Mare
© Chiara Cortese per IOC-UNESCO Ocean&Climate Village

Possiamo avere un ruolo, come società, per invertire la rotta 

Il forum chiave per amplificare e aggiornare gli obiettivi dell’OSS 14 sono le Conferenze delle Nazioni Unite sull’Oceano. La prima conferenza si è svolta a New York nel 2017, distinguendosi come punto di connessione vitale tra capi di Stato e di governo, rappresentanti della società civile, leader aziendali e imprenditori, accademici, scienziati, giovani e sostenitori dell’oceano e della vita marina. Nel 2017 il dialogo si è focalizzato nell’apprendere molte delle sfide e delle problematiche legate nel nostro rapporto con l’oceano, per esempio l’inquinamento da plastica.
Per intensificare l’azione su soluzioni comuni e condivise, ancorate all’Agenda 2030, è necessaria una cooperazione globale e transdisciplinare. Per mobilitare l’azione di cui l’oceano ha bisogno, le Conferenze cercano di promuovere la ricerca di soluzioni innovative basate sulla scienza e avviare un nuovo capitolo dell’azione globale per l’oceano.

I dieci target dell’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile 14

Scienziati, attivisti e responsabili politici hanno pensato a come raggiungere gli obiettivi formulati nell’ambito dell’OSS14. Hanno sviluppato dieci target e dieci indicatori che evidenziano la necessità di lavorare e migliorare nelle seguenti aree: inquinamento marino, conservazione attraverso l’istituzione di Aree Marine Protette, acidificazione dell’oceano, regolamentazione delle pratiche di pesca e aumento della ricerca per promuovere la conoscenza e la consapevolezza scientifica, che consentirebbe alla vita di continuare a prosperare sopra e sotto l’acqua.

Come già accennato, i target e gli indicatori vengono ciclicamente valutati e discussi nel corso di incontri internazionali. Tutti i dettagli relativi all’OSS14 sono disponibili sul sito web internazionale dedicato.

Obiettivo 14.1 Entro il 2025, prevenire e ridurre in modo significativo ogni forma di inquinamento marino, in particolar modo quello derivante da attività esercitate sulla terraferma, compreso l’inquinamento dei detriti marini e delle sostanze nutritive.

Obiettivo 14.2 Entro il 2020, gestire in modo sostenibile e proteggere l’ecosistema marino e costiero per evitare impatti particolarmente negativi, anche rafforzando la loro resilienza, e agire per il loro ripristino in modo da ottenere un oceano salubre e produttivo.

Obiettivo 14.3 Ridurre al minimo e affrontare gli effetti dell’acidificazione dei bacini oceanici, anche attraverso una maggiore collaborazione scientifica su tutti i livelli.

Obiettivo 14.4 Entro il 2020, regolare in modo efficace la pesca e porre termine alla pesca eccessiva, illegale, non dichiarata e non regolamentata e ai metodi di pesca distruttivi. Implementare piani di gestione su base scientifica, così da ripristinare nel minor tempo possibile le riserve ittiche, riportandole almeno a livelli che producano il massimo rendimento sostenibile, come determinato dalle loro caratteristiche biologiche.

Obiettivo 14.5 Entro il 2020, preservare almeno il 10% – l’obiettivo globale per il 2030 ora è al 30% – delle aree costiere e marine, in conformità al diritto nazionale e internazionale e basandosi sulle informazioni scientifiche disponibili più accurate.

Obiettivo 14.6 Entro il 2020, vietare quelle forme di sussidi alla pesca che contribuiscono a un eccesso di capacità e alla pesca eccessiva, eliminare i sussidi che contribuiscono alla pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata e astenersi dal reintrodurre tali sussidi, riconoscendo che il trattamento speciale e differenziato per i paesi in via di sviluppo e per quelli meno sviluppati che sia appropriato ed efficace, dovrebbe essere parte integrante dei negoziati per i sussidi alla pesca dell’Organizzazione Mondiale del Commercio.

Obiettivo 14.7 Entro il 2030, aumentare i benefici economici dei piccoli stati insulari in via di sviluppo e dei paesi meno sviluppati, facendo ricorso a un utilizzo più sostenibile delle risorse marine, compresa la gestione sostenibile della pesca, dell’acquacoltura e del turismo.

Obiettivo 14.A Aumentare la conoscenza scientifica, sviluppare la capacità di ricerca e di trasmissione della tecnologia marina, tenendo in considerazione i criteri e le linee guida della Commissione Oceanografica Intergovernativa sul Trasferimento di Tecnologia Marina, con lo scopo di migliorare la salute dell’oceano e di aumentare il contributo della biodiversità marina allo sviluppo dei paesi emergenti, in particolar modo dei piccoli stati insulari in via di sviluppo e dei paesi meno sviluppati.

Obiettivo 14.B Fornire l’accesso ai piccoli pescatori artigianali alle risorse e ai mercati marini.

Obiettivo 14.C Potenziare la conservazione e l’utilizzo sostenibile dell’oceano e delle sue risorse applicando il diritto internazionale, come riportato nella Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare, che fornisce il quadro legale per la conservazione e per l’utilizzo sostenibile dell’oceano e delle sue risorse, come riferito nel paragrafo 158 de “Il futuro che vogliamo”.

Un oceano sostenibile nell’interesse dell’umanità

Il raggiungimento degli obiettivi dell’OSS14 è un fattore chiave per il raggiungimento di tutti gli altri Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030.

Bibliografia:

https://sdgs.un.org/goals/goal14

https://www.un.org/sustainabledevelopment/oceans/

https://www.globalgoals.org/goals/14-life-below-water/

Ocean Literacy for All: A toolkit | IOC UNESCO 

Goal 14: Life below Water – SDG TrackerGoal 14: Conserve and sustainably use the oceans, seas and marine resources

Chi è IOC-UNESCO e di cosa si occupa

Chi è IOC-UNESCO_Decennio del Mare

È alla guida del Decennio del Mare, la leggete continuamente nel nostro sito, nei nostri social e nelle nostre comunicazioni, ma chi è IOC-UNESCO?

La Commissione Oceanografica Intergovernativa dell’UNESCO (IOC-UNESCO) è l’organismo delle Nazioni Unite responsabile del coordinamento dei programmi e servizi in ambito oceanografico a livello globale. La Commissione è stata istituita nel 1960 come organismo dotato di autonomia funzionale all’interno dell’UNESCO.
Come accennato brevemente sopra, IOC-UNESCO promuove la cooperazione internazionale e coordina i programmi di ricerca, i servizi e lo sviluppo delle capacità per conoscere meglio la natura e le risorse dell’oceano e delle zone costiere. Tali conoscenze vengono poi applicate per:

  • migliorare la gestione delle risorse marine globali
  • attuare un piano di sviluppo sostenibile marino e costiero
  • tutelare l’ambiente marino
  • coordinamento programmi di Educazione all’Oceano
  • supportare i processi decisionali dei 150 Stati Membri.

IOC-UNESCO sostiene tutti i suoi Stati Membri nello sviluppo delle loro capacità scientifiche e istituzionali per raggiungere gli obiettivi globali delineati nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e negli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, nell’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico e nel Quadro di Sendai sulla riduzione del rischio di disastri.

Quali sono gli obiettivi di IOC-UNESCO?

Gli obiettivi di alto livello che IOC-UNESCO ha prefissato tra il 2014 e il 2021 sono:

  • Ecosistemi marini sani e servizi ecosistemici garantiti
  • Sistemi efficaci di allerta precoce e preparazione agli tsunami e ad altri rischi legati all’oceano
  • Aumento della resilienza al cambiamento e alla variabilità del clima e miglioramento della sicurezza, dell’efficienza e dell’efficacia delle attività oceaniche attraverso servizi, strategie di adattamento e mitigazione basate sulla scienza
  • Maggiore conoscenza delle problematiche emergenti delle scienze del mare

In aggiunta, durante il One Ocean Summit organizzato dal governo francese a Brest, la Direttrice Generale dell’UNESCO ha invitato gli Stati Membri a includere l’Educazione all’Oceano nei curricula scolastici di ogni ordine e grado entro il 2025.

Durante la UN Ocean Conference, è stato anche stabilito l’obiettivo globale di mappare l’80% dei fondali entro il 2030 grazie al progetto Seabed2030 parte del programma del Decennio delle Scienze del Mare per lo Sviluppo Sostenibile.

UNESCO presenta il nuovo Rapporto sullo Stato dell'Oceano_UNESCO_Decennio del Mare
Before and after coral restoration near Komodo. © Martin Colognoli / Ocean Image Bank

Come è composta IOC-UNESCO?

IOC-UNESCO è un forum globale unico per la comprensione e la gestione dell’oceano composta da diversi organi governativi che coordinano le attività a livello globale.

General Conference

Si riunisce ogni due anni con la partecipazione di tutti gli Stati Membri parte di UNESCO. Ha sede presso il il quartier generale dell’UNESCO a Parigi, in Francia.

Stati Membri

IOC-UNESCO è composta da 150 Stati Membri (dato aggiornato a luglio 2019) che collaborano per salvaguardare la salute dell’oceano attuando programmi di osservazioni oceaniche, allerta tsunami e pianificazione dello spazio marittimo.

Assembly

L’Assemblea si riunisce una volta ogni due anni con lo scopo principale di esaminare il lavoro della Commissione, compreso quello degli Stati Membri e del Segretariato, e di formulare un piano di lavoro comune per i due anni successivi.

The Executive Council

Composto da 58 Stati Membri, eletti da e tra tutti gli Stati Membri, si riunisce due volte l’anno per esaminare l’andamento del lavoro in corso d’opera. Durante le riunioni, si preparano anche i punti da discutere nelle Assemblee e si prendono decisioni per le Conferenze generali.

Secretariat

Il Segretariato di IOC-UNESCO ha sede a Parigi, in Francia. I servizi generali e i servizi centrali supportano l’UNESCO nell’informazione pubblica, la pianificazione strategica attraverso la creazione di partenariati, la gestione finanziaria, l’audit, le risorse umane, gli affari legali, la gestione di dati e tecnologie, la gestione di progetti.
Insieme ai vari settori UNESCO, ci sono gli istituti e i centri di categoria 1 che si occupano di compiti specifici, come per esempio l’istituto dell’educazione.

Chi è IOC-UNESCO_Decennio del Mare
Stati Membri IOC-UNESCO – Illustrazione di Esteban Gottfried Burguett

Quali sono i programmi di IOC-UNESCO?

Il trasferimento critico delle conoscenze è essenziale per raggiungere gli obiettivi previsti e migliorare la gestione dell’oceano a livello locale e globale.
Le strategie e gli obiettivi sono collegati a programmi e meccanismi di collaborazione a lungo termine con diversi organi e programmi di IOC, come:

  • Global Ocean Observing System (GOOS)
  • International Oceanographic Data and Information Exchange (IODE)
  • Ocean Biogeographic Information System (OBIS)
  • World Climate Research Programme (WCRP)
  • Ocean Science Programme (OSP)
  • Integrated Coastal Area Management (ICAM)
  • Harmful Algal Blooms (HAB)

IOC-UNESCO contribuisce anche ai programmi educativi e alla formazione di network di educatori tramite la partecipazione alla European Marine Science Educators Association (EMSEA) e alla sua rete mediterranea (EMSEA-MED).

Qual è il ruolo dell’IOC Project Office di Venezia?

L’Ufficio Regionale UNESCO per la Scienza e la Cultura in Europa ospita un’unità di IOC-UNESCO. Nell’ambito delle sue attività di capacity building, IOC-UNESCO si dedica a programmi di Educazione all’Oceano e comunicazione delle scienze del mare. I programmi di formazione sviluppati coinvolgono tutte le sfere della società, non sono esclusivi per scuole e bambini.

L’ufficio di Venezia è quindi in prima linea nello sviluppo e nella diffusione delle conoscenze sull’alfabetizzazione oceanica a livello globale. Tra le attività, è stata creata una piattaforma globale per lo scambio di informazioni e contenuti educativi, l’Ocean Literacy Portal. Il portale è una piattaforma di connessione tra ricercatori, educatori oceanici e specialisti delle politiche.

Il programma di Educazione all’Oceano ha avviato un progetto parte delle iniziative del Decennio del Mare a livello globale, chiamato Ocean Literacy With All (OLWA).
OLWA mira a promuovere la comprensione dell’importanza di agire per il cambiamento di comportamento e attitudine verso l’oceano e la vita marina.
Il primo passo è dato da programmi di comunicazione sull’impatto dell’oceano su di noi e della nostra influenza sull’oceano, il secondo invece è l’attivazione sul territorio attraverso iniziative a livello comunitario.

IOC-UNESCO attraverso l’utilizzo di metodi che promuovo il cambiamento comportamentale e l’adozione di un approccio sistemico, mira a facilitare la creazione di una società educata all’oceano e pronta a lavorare per raggiungere gli obiettivi dell’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile 14 e del Decennio del Mare.

Un esempio pratico è l’Ocean&Climate Village, un progetto educativo che si distingue per il suo approccio didattico coinvolgente della comunità locale. Viaggiando per il mondo, l’Ocean&Climate Village invita le comunità locali a scoprire le relazioni uniche tra la loro città e l’oceano attraverso un approccio interdisciplinare.

Bibliografia:

IOC-UNESCO 

IOC UNESCO 

Our Structure | IOC UNESCO

The Intergovernmental Oceanographic Commission (IOC) of UNESCO | UNEP – UN Environment Programme 

Venice 

Perché l’oceano è blu?

Cristian Palmer - Unsplash

C’è una cosa sull’oceano che tutti sappiamo con certezza, ed è che l’oceano e il mare sembrano essere blu. Perché l’oceano è blu alla nostra vista?

L’oceano contiene più del 97% dell’acqua della Terra e sostiene il 99% della biosfera globale. Pertanto, l’oceano è estremamente importante per la vita sul nostro pianeta.
A causa della sua vastità, solo il 5% dell’oceano è stato esplorato e tracciato dall’uomo. Il resto, specialmente le sue parti più profonde, rimangono inesplorate.

In questo articolo, ti spiegheremo perché l’oceano è blu, in modo che tu possa finalmente capire come funziona.

Mathyas Kurmann - Unsplash
Mathyas Kurmann – Unsplash

L’oceano è blu?

Naturalmente, sappiamo tutti che l’acqua pulita è incolore, è trasparente. Allora, perché l’oceano – come altri corpi d’acqua – appare blu? 

Per molti anni, abbiamo creduto che l’oceano e altri corpi idrici siano di una tonalità blu perché riflettono il cielo blu… ma questo non è completamente vero! Certo, la superficie dell’acqua riflette il cielo: dalla costa, può apparire blu in una giornata di sole, grigia quando è nuvolosa o tempestosa, o persino mostrare sfumature di rosa durante il tramonto. Ma se scendiamo sotto la superficie, il colore blu rimane, e rimane anche quando guardiamo l’oceano dallo spazio. In questi casi, l’acqua non riflette il cielo.

La ragione per cui l’oceano appare blu è in effetti una riflessione, ma non è semplicemente uno specchio del cielo.
Infatti, la luce del sole contiene l’intero spettro di colori, dal rosso al violetto, come vediamo nell’arcobaleno. Ogni colore possiede una specifica lunghezza d’onda, il colore rosso ha lunghezze d’onda più lunghe. La lunghezza d’onda degli altri colori diventa progressivamente più corta, con il blu e il viola alla fine della gamma, con la lunghezza d’onda più corta di tutti.

Sebastien Gabriel - Unsplash
Sebastien Gabriel – Unsplash

Quando la luce colpisce l’oceano, l’acqua assorbe prima le lunghezze d’onda più lunghe, riflettendo ai nostri occhi i colori con le lunghezze d’onda più corte. Quindi, come un filtro, le molecole d’acqua assorbono le parti rosse dello spettro luminoso e si lasciano dietro i colori dello spettro blu, che vengono così visualizzate dai nostri occhi.

Non appena raggiungiamo una profondità di qualche metro, la maggior parte della luce rossa e arancione scompare del tutto, assorbita dalle molecole d’acqua. Poco dopo vengono assorbite le lunghezze d’onda del giallo e del verde, lasciando solamente il blu e il viola, che sono in grado di penetrare più in profondità.

Tuttavia, questo fenomeno avviene solo fino a una certa profondità. In realtà, la maggior parte dell’oceano è completamente al buio poiché quasi nessuna lunghezza d’onda penetra oltre i 200 metri.

Marek Okon - Unsplash
Marek Okon – Unsplash

Tutti i corpi idrici appaiono blu?

Ogni cosa assorbe la luce ad una diversa lunghezza d’onda, e poi riflette i colori rimanenti all’osservatore.

Quando la luce penetra completamente nell’acqua, come in un bicchiere o in un corpo d’acqua molto superficiale, vediamo l’acqua come incolore, poiché non vengono assorbiti abbastanza fotoni (ovvero le molecole date dalla radiazione luminosa). La luce semplicemente brilla attraverso.

Questo è principalmente il motivo per cui diversi corpi d’acqua possono avere diverse sfumature di blu. Più profondo è il bacino, più scuro e profondo sarà il colore, poiché più acqua c’è, più luce viene assorbita.

Avrete notato che, a volte, l’acqua può anche apparire di colori diversi dal blu. Questo è spesso il risultato delle caratteristiche dell’acqua o del suolo.

Alcuni fiumi o stagni, per esempio, possono apparire di un marrone fangoso piuttosto che blu, il che è spesso dovuto alla presenza di sedimenti nell’acqua, specialmente dopo che l’acqua è stata agitata.

Le acque cristalline dei Caraibi, che di solito sono più vicine a tonalità di verde chiaro piuttosto che blu, potreste aver pensato che è perché l’acqua è più pulita. Certo, questo ha un impatto, ma spesso i colori sono dati dalla vita vegetale che esiste in molte acque caraibiche, contribuendo a riflettere più luce verde. 

Spesso, le acque caraibiche più belle tendono anche ad essere poco profonde, e la composizione del fondo dell’oceano, data principalmente dai coralli, può essere responsabile di un modo diverso di riflettere la luce.

Wai Siew - Unsplash
Wai Siew – Unsplash

Perché gli scienziati studiano il colore dell’oceano?

Alcuni tipi di particelle (per esempio le cellule del fitoplancton, dette anche microalghe) contengono anche sostanze che assorbono diverse lunghezze d’onda della luce, alterando il colore riflesso dall’acqua. Ci sono molte sostanze nell’acqua che assorbono la luce e quindi modificano i colori riflessi. Di solito, queste sostanze sono composte da carbonio organico e gli scienziati si riferiscono generalmente a loro come CDOM, abbreviazione di materia organica dissolta colorata.

Una sostanza essenziale che assorbe la luce nelle acque oceaniche è la clorofilla, che il fitoplancton usa durante il processo di fotosintesi. La clorofilla è un pigmento verde, e quindi il fitoplancton assorbe preferibilmente le porzioni rosse e blu dello spettro luminoso per la fotosintesi, riflettendo quindi la luce verde.

Così, le regioni dell’oceano con alte concentrazioni di fitoplancton appaiono con sfumature diverse dal solito blu: vanno dal verde acqua al verde, a seconda della densità e del tipo di popolazione di fitoplancton che contengono.

Il principio che sta alla base dello studio del colore degli oceani dallo spazio è semplice: più fitoplancton c’è nell’acqua, più questa apparirà verde; meno fitoplancton, più sarà blu.

Cristian Palmer - Unsplash
Cristian Palmer – Unsplash

Così, gli scienziati stanno studiando il colore dell’oceano per ottenere una migliore comprensione del fitoplancton e di come influenza l’oceano e la Terra.

Si è scoperto che questi piccoli organismi possono avere un grande impatto su un sistema su larga scala, come il cambiamento climatico. Per esempio, il fitoplancton usa l’anidride carbonica per la fotosintesi, fornendo quasi la metà dell’ossigeno che respiriamo sul pianeta. Quindi, una popolazione mondiale di fitoplancton grande e fiorente significa che più anidride carbonica viene estratta dall’atmosfera, mitigando gli effetti dell’inquinamento e abbassando gli effetti del riscaldamento globale e del cambiamento climatico.

Gli scienziati hanno scoperto che una data popolazione di fitoplancton può raddoppiare il suo numero circa una volta al giorno, il che significa che è in grado di rispondere molto rapidamente ai cambiamenti nel loro ambiente.

Esaminare il colore degli oceani aiuta i ricercatori a capire e monitorare il fitoplancton, il che può essere un passo verso la previsione dei cambiamenti ambientali.

I cambiamenti in ogni popolazione di fitoplancton, come le variazioni della sua densità, distribuzione e tasso di crescita o diminuzione della popolazione, avviseranno gli scienziati del cambiamento delle condizioni ambientali.

Bibliografia

https://oceanservice.noaa.gov/facts/oceanblue.html

https://www.scientificamerican.com/article/why-does-the-ocean-appear/

https://science.nasa.gov/earth-science/oceanography/living-ocean/ocean-color

https://www.wonderopolis.org/wonder/why-is-the-ocean-blue

https://www.mcgill.ca/oss/article/environment-general-science-you-asked/why-sky-blue-or-better-yet-why-ocean-blue