Trattato dell’Alto Mare: perché la sua adozione è un passo fondamentale per il futuro dell’oceano

Lunedì 19 giugno 2023, i 193 Stati Membri delle Nazioni Unite hanno formalmente adottato il Trattato dell’Alto Mare volto a proteggere la biodiversità oltre i confini nazionali, fino ad ora minacciata da inquinamento, crisi climatica e pesca eccessiva.

Ci sono voluti più di due decenni di negoziati per trovare un’onda comune per riuscire a regolamentare le attività e la preservazione della biodiversità marina nelle zone di alto mare, oltre le zone di giurisdizione nazionale.

Diritto del Mare_Decennio del Mare
Zonazione dello spazio marittimo Camilla Tommasetti per IOC-UNESCO

Le zone considerate “Alto Mare” ricoprono circa il 70% della superficie dell’oceano e circa il 95% del suo volume, ospitando così gran parte della biodiversità marina. Il nuovo accordo va ad agire per contrastare le tre crisi planetarie in atto – climatica, perdita di biodiversità e inquinamento – e invertire il trend di deterioramento dell’ambiente.

“Abbiamo un nuovo strumento. Questo risultato storico testimonia l’impegno collettivo per la conservazione e l’uso sostenibile della diversità biologica marina nelle aree al di fuori della giurisdizione nazionale. Insieme, avete gettato le basi per una migliore gestione dei nostri mari, garantendo la loro sopravvivenza per le generazioni a venire”.

Csaba Kőrösi, Presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Perché è importante il Trattato dell’Alto Mare?

Il Trattato sull’Alto Mare, o Trattato sulla Biodiversità Oltre le Zone di Giurisdizione Nazionale, offre un quadro aggiornato alla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS), entrata in vigore nel 1994. Il nuovo accordo considera l’oceano in tutti i suoi aspetti, valutando la sua importanza nei diversi settori, dall’economia alla regolazione del clima, perdita di biodiversità e inquinamento.

In un periodo in cui c’è un forte aumento di interesse per l’esplorazione e l’utilizzo delle risorse marine delle acque di altura, il trattato mira anche ad aumentare e regolamentare la condivisione dei benefici derivanti dall’utilizzo delle risorse in modo giusto ed equo.

Questo è anche un importante passo per raggiungere, nei tempi previsti, gli obiettivi previsti dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e dal Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework per la conservazione della biodiversità.

Sperm Whales swim in the waters off Dominica.

“L’oceano è la linfa vitale del nostro pianeta e oggi avete dato nuova vita e speranza per dare all’oceano una possibilità di combattere”

António Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite

Cosa cambia in termini di governance?

Per decenni, le zone di alto mare sono state governate senza considerare le nuove necessità e sfide emerse negli anni.
Molte attività sono regolamentate da diversi accordi e trattati, come il trasporto marittimo, la pesca e le attività estrattive. Ma questi accordi e convenzioni hanno dialogato molto poco tra loro, lavorando in compartimenti stagni e creando assenza di coerenza e coordinamento.

Questa governance frammentata e incoerente è risultata in un sistema inadeguato per gestire e contrastare il degrado ambientale, la crisi climatica e la perdita di biodiversità. Tre crisi che richiedono azioni collettive e coordinate a livello globale.

Grazie all’adozione del Trattato di Alto Mare si accede ad un nuovo quadro di riferimento che offre nuovi strumenti e meccanismi di governance e azione per la conservazione, l’uso e la gestione delle risorse marine.

1. Nuove azioni di protezione oltre i confini nazionali

Il Trattato dell’Alto Mare ha l’obiettivo di portare gli Stati ad assumere la gestione dell’oceano per conto delle generazioni presenti e future, in linea con gli articoli e obiettivi presenti nella Convenzione sul Diritto del Mare (UNCLOS).

Grazie all’adozione del trattato, anche le zone di alto mare hanno acquisito nuove forme di protezione da impatti come l’inquinamento e la pesca eccessiva. Il nuovo accordo contiene 75 articoli che hanno lo scopo di proteggere, prendersi cura e garantire l’uso responsabile dell’ambiente marino, mantenere l’integrità dei suoi ecosistemi e preservare il valore intrinseco della diversità biologica.

L’accordo consentirà di istituire strumenti di gestione basati sulle aree, comprese le aree marine protette, per conservare e gestire in modo sostenibile habitat e specie vitali in alto mare e nell’area dei fondali marini internazionali. L’obiettivo? Tutelare almeno il 30% dell’oceano entro il 2030.

Marine Protected Areas as of November 2022 (data from MPAtlas)

2. Un oceano più pulito

Sostanze chimiche tossiche e milioni di tonnellate di rifiuti vengono riversati quotidianamente negli ecosistemi costieri, provocando ingenti danni agli habitat e alle specie che li abitano, entrando nella catena alimentare e arrivando così fino a noi.

Secondo l’ultimo rapporto sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS), nel 2021 più di 17 milioni di tonnellate di plastica sono entrate nell’oceano, costituendo l’85% dei rifiuti marini. I modelli previsionali stimano che la quantità raddoppierà o triplicherà ogni anno entro il 2040.

Prima di mettere in atto azioni nell’alto mare, gli Stati dovranno valutare i potenziali impatti ambientali di qualsiasi attività pianificata al di fuori delle loro giurisdizioni.

In aggiunta, sul fronte inquinamento, le Nazioni Unite hanno avviato una negoziazione per un nuovo trattato globale per porre fine all’inquinamento da plastica. Si tratta di un passo storico per proteggere la fauna selvatica, l’ambiente e l’umanità dagli effetti nocivi dell’inquinamento derivante da questi materiali.

Che cos'è il bluewashing_Decennio del Mare
Photo by OCG Saving The Ocean on Unsplash

3. Gestione sostenibile degli stock ittici

Secondo le Nazioni Unite, più di un terzo degli stock ittici mondiali è sovrasfruttato. Questo significa che la disponibilità di risorse ittiche diminuisce anno dopo anno.

Il Trattato dell’Alto Mare sottolinea l’importanza di collaborare per aumentare e rafforzare le capacità e trasferire tecnologie innovative, compreso lo sviluppo delle capacità istituzionali e dei quadri o meccanismi normativi nazionali. Per raggiungere l’obiettivo bisogna lavorare per raggiungere una maggiore collaborazione tra le organizzazioni marittime regionali e le organizzazioni regionali di gestione della pesca.

Photo by Milos Prelevic on Unsplash

4. Contrastare la crisi climatica

La crisi climatica riguarda anche l’oceano. L’aumento della temperatura media dell’oceano alimenta lo sviluppo di tempeste rendendole sempre più frequenti e intense. Non solo, contribuisce a velocizzare il fenomeno di innalzamento del livello del mare legato all’espansione termica dell’acqua e allo scioglimento dei ghiacciai terrestri. Questo comporta l’aumento di fenomeni di erosione costiera, alluvione e inondazione di centri abitati e grandi metropoli e la salinizzazione delle terre e delle falde acquifere, diminuendo così la quantità di acqua dolce disponibile.

Per rispondere a queste urgenti preoccupazioni, il Trattato dell’Alto Mare offre una guida per lavorare ad aumentare la resilienza degli ecosistemi mantenendo e ripristinando la loro integrità. Azioni di protezione e rigenerazione contribuiscono anche ad affrontare gli effetti negativi del cambiamento climatico.

Le disposizioni del Trattato dell’Alto Mare inoltre riconoscono anche i diritti e il valore delle conoscenze tradizionali delle popolazioni indigene e delle comunità locali, la libertà della ricerca scientifica e la necessità di una giusta ed equa condivisione dei benefici, come già riportato anche in UNCLOS.

Graphics and lead scientist: Ed Hawkins, National Centre for Atmospheric Science, UoR.
Data: Berkeley Earth, NOAA, UK Met Office, MeteoSwiss, DWD, SMHI, UoR & ZAMG

Sources:

UNEP , UN News , UN DOALOS

Il catalogo dell’Ocean&Climate Village è online

Ocean&Climate Village_Decennio del Mare_2

È online il catalogo dedicato all’Ocean&Climate Village, l’esibizione itinerante di IOC/UNESCO dedicata al nesso tra oceano e clima.

Ocean&Climate Village è la prima mostra itinerante, interattiva ed educativa dedicata a oceano e clima, sviluppata dall’Ufficio Regionale per la Scienza e la Cultura in Europa e la Commissione Oceanografica Intergovernativa dell’UNESCO, nell’ambito dell’iniziativa All4Climate di Pre-COP26 e nel contesto del Decennio delle Scienze del Mare per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite (2021-2030).

L’obiettivo di Ocean&Climate Village

Ocean&Climate Village è uno strumento innovativo per diffondere i principi dell’Educazione all’Oceano e promuovere un cambiamento trasformativo nel modo in cui la società considera e vive l’oceano.
Al centro di questo lavoro di sensibilizzazione ci sono i giovani e i diversi settori della società, con l’obiettivo di crescere una Generazione Oceano che, per il 2030, avrà maturato non solo una piena consapevolezza dell’importanza dell’oceano e una conoscenza scientifica adeguata, ma che sarà anche pronta a diventare protagonista del cambiamento di cui il mondo ha bisogno.

Ocean&Climate Village Venezia
Il team IOC-UNESCO, insieme ai volontari del CNR-ISMAR e dell’Università Ca’ Foscari, ha guidato i piccoli e grandi visitatori spiegando i contenuti della mostra e offrendo laboratori didattici.

Il catalogo Ocean&Climate Village

Come l’esperienza fisica dell’Ocean&Climate Village, il suo catalogo raccoglie le opere presenti all’interno dell’esibizione attraverso il racconto degli illustratori che hanno partecipato alla realizzazione dei pannelli.
Ma non solo, il catalogo è ricco di testimonianze di persone che in tutto il mondo lavorano per la preservazione dell’oceano, dei patrimoni culturali e naturali e che dedicano le proprie capacità alla divulgazione di conoscenza e alla creazione di una consapevolezza collettiva volta al raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.

Il catalogo è disponibile in lingua italiana e inglese in formato PDF e digitale.

Chi ha contribuito al catalogo?

L’Ocean&Climate Village e il suo catalogo sono stati ideati e sviluppati dal team che lavora alle iniziative di Educazione all’Oceano di IOC/UNESCO, ma molte sono le persone che hanno dato il proprio contributo alla loro realizzazione:

  • Vladimir Ryabinin, Segretario Esecutivo della Commissione Oceanografica Intergovernativa (IOC) dell’UNESCO
  • Peter Thomson, Inviato Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite per l’oceano
  • Francesca Santoro, Senior Programme Officer – Ocean Literacy, IOC-UNESCO
  • Victoria Alis, Delegata Youth4Climate per le Seychelles alla pre-COP26
  • Luca Fois, Professore di Design degli Eventi al Politecnico di Milano membro di CiLab
  • Anne de Carbuccia, Artista ambientale
  • Marcello Ziliani, Professore di Design all’Università degli Studi di San Marino
  • Federico Girotto, Designer e Davide Santini, Art Developer, ideatori e sviluppatori di UpSea Down
  • Kerstin Forsberg, biologa marina e imprenditrice sociale
  • Daniela Basso, Professoressa di Paleontologia e Geobiologia dell’Università di Milano-Bicocca
  • Fabien Cousteau, Acquanauta, Esploratore dell’Oceano e Environmental Advocate
  • Marco Bravetti, Main Chef presso l’Associazione culturale Spiazzi, progetto gastronomico TOCIA!
  • Barbara Davidde, Soprintendente della Soprintendenza Nazionale per il patrimonio culturale subacqueo
  • Henrik Oksfeldt Enevoldsen, Programme Coordinator, IOC-UNESCO
  • Vinicius Lindoso, responsabile della comunicazione, IOC-UNESCO

Il catalogo riporta anche la raccolta delle illustrazioni presenti nell’Ocean&Climate Village direttamente narrate dai loro illustratori e illustratrici: Maria Boragno, Clara Fois, Esteban Gottfried Burguett, Folco Soffietti, Yue Liu, Camilla Tomasetti, Chiara Cortese e Maia Lihuen Seri.

Nella sezione dedicata alla Generazione Oceano, il catalogo raccoglie le testimonianze e i progetti di persone che lavorano tutti i giorni con il mare, contribuendo alla formazione di una generazione consapevole dell’importanza dell’oceano per la nostra vita e dell’impatto che le nostre azioni quotidiane hanno sull’oceano.

Keystone species: l’importanza di una specie chiave di volta per l’ecosistema

Specie chiave di volta_Decennio del Mare

Negli anni ’60, l’ecologo americano Robert T. Paine fece presente per la prima volta il concetto di “specie chiave di volta”, in inglese keystone species.  

Esistono, infatti, alcuni organismi (animali, vegetali o fungini) che aiutano a mantenere un ecosistema in equilibrio. Senza di esse, l’ecosistema sarebbe completamente diverso o cesserebbe di esistere del tutto in quanto la sopravvivenza di queste specie è fondamentale per l’esistenza delle altre. 

Le specie chiave di volta hanno una bassa ridondanza funzionale: se la specie dovesse scomparire, nessun’altra sarebbe in grado di prendere il suo posto nella nicchia ecologica che occupava. 

Come è nato il concetto delle specie chiave di volta?

Paine condusse un esperimento, da non replicare a casa. In una zona costiera lungo la costa del Pacifico nord-occidentale degli Stati Uniti,l’ecologo eliminò nell’arco di venticinque anni, il predatore principale di quell’ecosistema: la stella marina Pisaster ochraceus, meglio nota come stella marina viola. 

Specie chiave di volta_Decennio del Mare
© Ochre sea star (Pisaster ochraceus) taken at Ganges Harbour Salt Spring Island British Columbia by D Gordon E. Robertson via Wikipedia

Pochi mesi dopo la scomparsa delle stelle marine, le cozze presero il sopravvento nell’area. La presenza di un maggior numero di cozze portò alla diminuzione del numero di organismi di altre specie, tra cui le alghe bentoniche che a loro volta sostenevano comunità di lumache di mare, patelle e bivalvi. 

Nel complesso, la biodiversità di quell’area era crollata: il numero di specie presenti passò da quindici a otto.

In una ricerca scientifica del 1966, Paine spiegò cosa fosse successo e identificò la stella marina viola come “specie chiave di volta” , capace di influenzare con la sua presenza, o assenza, i livelli inferiori della catena alimentare, impedendo a determinate specie di monopolizzare le risorse, inclusi spazio e cibo. 

Oltre alla stella marina c’è di più 

Le specie chiave erano originariamente definite come consumatori che modificano notevolmente la composizione e l’aspetto fisico di una comunità ecologica. Tuttavia, molti studi hanno dimostrato che non solo i predatori possono essere classificati come specie chiave, ma anche gli ingegneri dell’ecosistema, come i castori, i coralli e persino le mangrovie o le specie mutualiste come le api e i fiori. Vediamone insieme alcune.

Specie chiave di volta_Decennio del Mare
© Isaac Mijangos via Pexels

Nel mare non ci sono solo i coralli, ma anche altri ecosistemi fondamentali per mantenere il mare in salute. Un esempio sono le foreste di Kelp. Le Kelp sono delle alghe brune che raggiungono anche 50 metri di altezza. Tra le fronde delle foreste di Kelp della costa occidentale nordamericana vivono le lontre marine (Enhydra lutris). Proprio le lontre marine sono una specie chiave di volta, in quanto proteggono le foreste di Kelp dai danni dei ricci di mare di cui si nutrono.
Quando fu avviata la caccia alle lontre della costa occidentale nordamericana per l’uso commerciale della loro pelliccia, il numero di individui scese a livelli così bassi da non riuscire più a contenere la popolazione dei ricci di mare. Infatti, i ricci, a loro volta, pascolavano le praterie algali così pesantemente che nel giro di poco sparirono, insieme a tutte le specie che dipendevano da esse.

Specie chiave di volta_Decennio del Mare
© Ocean Image Bank – The Ocean Agency Mangroves

Tra le piante, importanti specie chiave di volta sono le mangrovie che proteggono le coste dall’erosione costiera, catturano e stoccano grandi quantità di carbonio e forniscono habitat sicuri a piccoli pesci e altri organismi.

Tra gli animali, oltre alle lontre e le stelle marine,troviamo i coralli. Questi piccoli animali crescono come una colonia di migliaia e persino milioni di singoli polipi. Gli esoscheletri rocciosi di questi polipi creano enormi strutture, le scogliere coralline.
Le scogliere coralline supportano più specie per unità di superficie rispetto a qualsiasi altro ambiente marino, tra cui circa 4.000 specie di pesci, 800 specie di coralli duri e centinaia di altre specie.

Specie chiave di volta_Decennio del Mare
© Renata Romeo by Ocean Image Bank

Le barriere coralline supportano più specie per unità di superficie rispetto a qualsiasi altro ambiente marino, tra cui circa 4 000 specie di pesci, 800 specie di coralli duri e centinaia di altre specie. 

Specie chiave di volta_Decennio del Mare
© Tom Vierus by Ocean Image Bank

Ed infine, gli squali. In quanto predatori apicali, gli squali svolgono un ruolo importante per gli ecosistemi oceanici. In quanto predatori, mantengono in salute le popolazioni delle loro prede catturando i pesci più lenti e deboli. 

Lungo la costa atlantica degli Stati Uniti si è constatata una diminuzione del numero di squali con un conseguentemente un un incremento della popolazione della razze “muso di Vacca” Rhinoptera bonasus. Questa specie di razza si nutre di bivalvi, vongole e capesante. L’aumento della sua popolazione ha avuto ripercussioni anche sulle attività economiche della baia. Le capesante infatti erano il fiore all’occhiello dei pescatori, ma anche le razze ne erano ghiotte. 

Specie chiave di volta_Decennio del Mare
Rhinoptera bonasus © Brest Citron via Wikipedia

Differenza tra “specie ombrello” e “specie chiave di volta”

Si definisce “specie ombrello” una specie  la cui conservazione attiva comporta indirettamente la conservazione di molte altre specie presenti nel suo areale. La maggior parte delle specie ombrello sono specie migratrici, quindi si spostano anche per migliaia di chilometri durante la loro vita non avendo un impatto diretto sulle reti alimentari, come invece lo hanno le specie chiavi di volta. Esempi di specie ombrello sono: orso grizzly, la tigre, il lupo e il panda gigante. 

Le tartarughe marine sono una specie ombrello degli ecosistemi marini, in quanto svolgono ruoli importanti negli habitat costieri e marini contribuendo alla salute e al mantenimento delle barriere coralline, delle praterie di fanerogame, degli estuari e delle spiagge sabbiose. 

Specie chiave di volta_Decennio del Mare
© Jeff Hester by Ocean Image Bank

L’importanza delle azioni di conservazione

Aumentare la consapevolezza sull’importanza del ripristino dell’ecosistema e delle specie chiave di volta vulnerabili o a rischio estinzione è un ottimo modo per coinvolgere sia le istituzioni e le organizzazioni sia i singoli individui.

Con il programma di Educazione all’Oceano (Ocean Literacy) di  IOC-UNESCO e il programma regionale del Decennio del Mare vogliamo far conoscere le bellezze e la ricchezza degli ecosistemi marini e le sfide che stanno affrontando affinché ognuno di noi possa rispettare e amare al meglio le meravigliose creature che abitano l’oceano.

Ricorda che durante le uscite in barca o durante le escursioni lungo i litorali puoi aiutare gli scienziati nel monitoraggio e tutelare l’ambiente inviando segnalazioni degli animali o piante che ti capita di incontrare. Insieme per il Pianeta Blu! 

Di chi è il mare? La storia del Diritto del Mare

“Di chi è il mare?” è una domanda che ci facciamo spesso e che altrettanto speso sembra non avere una risposta. In realtà, il Diritto del Mare è regolato dal 1982 tramite la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS). Analizziamo assieme per capire meglio se il mare è di tutti, di nessuno o dello Stato.

Il Diritto del Mare regola i rapporti tra gli Stati per quanto riguarda gli usi del mare. Per la complessità, l’interdisciplinarietà e l’evoluzione della tematica, il diritto del mare è estremamente dinamico e si deve saper adattare alle nuove sfide. Per questo, ancora oggi possiamo assistere a momenti di negoziazione per tutelare e regolamentare l’utilizzo delle risorse marine. Un esempio sono le negoziazioni che si stanno svolgendo a New York ad agosto 2022 per adottare il Trattato dell’Alto Mare.

Nonostante tutti noi abbiamo accesso al mare, esiste una suddivisione in diverse zone tra completa libertà e completa sovranità dello Stato costiero. Ogni zona è caratterizzata da un limite definito in base alle miglia nautiche dalla costa ed è regolamentata da diversi obblighi, leggi e regole. Come si può osservare dall’immagine sottostante, le zone principali sono 5: Mare Territoriale, Zona Contigua (ZC), Zona Economica Esclusiva (ZEE), Alto Mare e Area.

Diritto del Mare_Decennio del Mare
Zonazione dello spazio marittimo Camilla Tommasetti per IOC-UNESCO

Mare Territoriale

Striscia di mare adiacente alle coste dello Stato. Il limite massimo di estensione è 12 miglia, misurate a partire da una linea di base.

Zona Contigua

Si estende per altre 12 miglia nautiche oltre il mare territoriale. Qui lo Stato costiero esercita la sua autorità al fine di prevenire o reprimere infrazioni alla sua legislazione nazionale.

Zona Economica Esclusiva

Se dichiarata e approvata, si estende fino a 200 miglia nautiche dalla costa. Funge da zona di transizione tra la completa sovranità e la completa libertà.

Alto Mare

Qui si applica il principio della libertà del mare a condizione che siano rispettati gli interessi degli altri Stati.

Area

Il fondale oltre la Zona Economica Esclusiva, chiamato Area, e le risorse minerarie lì presenti sono considerati Patrimonio Comune dell’Umanità.

La storia del Diritto del Mare

Il primo tentativo di regolare la sovranità delle acque è avvenuto nel 1493 attraverso un atto presente nella bolla papale “Intercetera” da Papa Alessandro VI. Nel 1942, Cristoforo Colombo scoprì l’America, pensando che il modo migliore per raggiungere l’India fosse navigare a sud, alla latitudine delle Canarie. Per rientrare in Europa invece, è preferibile navigare alla latitudine delle Azzorre. Al suo ritorno il Papa tracciò una linea unendo il Polo Nord al Polo Sud a una distanza di circa 100 leghe (circa 482 chilometri) dalle Azzorre. Tutte le terre emerse localizzate a ovest della linea appartenevano alla Spagna.

Il Portogallo non era contento della donazione. Infatti anche il Portogallo è uno Stato cristiano ed è bravo nella navigazione, per questo cercò di negoziare la decisione. A Tordesillas, in Spagna, venne così stipulato il “Trattato di Tordesillas” che tracciò il meridiano Raya a 370 leghe (circa 1786 chilometri) di distanza dalle isole di Capo Verde. Portogallo e Spagna accordarono che tutte le terre a ovest della linea appartenevano alla Spagna e quelle che si trovavano a est al Portogallo. Questo è il motivo per cui in Brasile ancora oggi si parla portoghese.

Nel 1529, con il Trattato di Saragozza, gli Stati iniziarono ad acclamare la proprietà anche dell’area marina, escludendo la possibilità ad altri Stati di navigare e svolgere attività in quel tratto di oceano senza essere in possesso di un’autorizzazione rilasciata da Portogallo o Spagna.

Altri Stati, come Olanda, Grand Bretagna e Francia non erano disposti ad accettare la divisione delle acque solo tra Spagna e Portogallo. Per loro, il Papa non era un’autorità politica, e per questo non aveva il potere di donare terra e acqua ad alcuna nazione.

Il mare è libero o no?

Nel 1609 Hugo Grotius, filosofo, teologo, avvocato e politico olandese, in difesa del diritto del suo Stato di navigare e commerciare in mare, scrisse il saggio “Mare liberum”, aprendo un nuovo dibattito sulla libertà del mare. Secondo Grotius è impossibile che gli Stati impongano la loro sovranità sull’acqua. L’acqua è un elemento libero e non si può impedire a nessuno di usarla.

Nello stesso anno, in Inghilterra, Re Giacomo promosse il contenimento dell’attività di pesca nelle acque costiere della Gran Bretagna. Questa legge proibì a tutti gli stranieri di pescare lungo le coste delle isole britanniche per evitare la pesca eccessiva. Il limite della legge era dato dal fatto che non fosse chiaro fino a che punto si spingessero le acque inglesi.

La prima divisione del mare

Per la prima volta, gli Stati potevano avere la sovranità solo in prossimità della costa, nelle acque territoriali, oltre questo limite c’è l’Alto Mare che, ancora oggi, è libero. Ma come è stato stabilito il limite delle acque territoriali?

Lo scrittore olandese Cornelis van Bynkershoek nel 1702 scrisse un libro “Dominio mari dissertation” sul limite tra le acque costiere e l’alto mare. Lo scrittore teorizzò la “regola del tiro di cannone”, identificando il confine nella distanza massima del tiro di un cannone. Il problema è che la capacità del tiro di un cannone di coprire una distanza sempre maggiore aumenta nel tempo, quindi la misura può cambiare in base allo sviluppo tecnologico del singolo Stato.

Lo scrittore italiano Ferdinando Galliani scrisse un libro “Diritto del mare in tempo di guerra” secondo il quale, per evitare le discussioni, si dovrebbe stabilire una distanza fissa, identificata in 3 miglia nautiche (circa 5,5 chilometri) dalla costa. Questa teoria è stata poi utilizzata dalle maggiori potenze marittime come Stati Uniti e Gran Bretagna.

L’evoluzione del Diritto del Mare nel 1900

Il 1900 è stato l’anno di svolta del Diritto del Mare. In questo secolo tutti gli usi tradizionali del maree delle risorse marine sono stati affrontati e regolati con norme di codificazione internazionale. In passato le leggi del mare non erano scritte e codificate, ma vigevano regole non scritte e quindi difficili da controllare.

Nel 1930 la Lega delle Nazioni ha cercato per la prima volta di codificare le Leggi del Mare, senza però riuscire completamente nell’impresa.
Il secondo tentativo fu fatto dalle Nazioni Unite nel 1958 e nel 1960 con la Convenzione di Ginevra. Anche in questo caso il quadro legale elaborato non ebbe completo successo, ma la negoziazione si focalizzò su alcune tematiche specifiche, per esempio l’Alto Mare.
Solo nel 1973 le Nazioni Unite riuscirono a trovare una modalità di lavoro e negoziazione che diede l’opportunità di lavorare a livello globale alla Convenzione sul Diritto del Mare.

Che cos’è la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare?

Nel 1973, le Nazioni Unite finalmente riuscirono a codificare le leggi del Diritto del Mare attraverso la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS). La Convenzione fu adottata nel 1982 a Montego Bay, in Giamaica.
La Convenzione necessitò di un certo numero di rettifiche, per questo entrò in vigore nel 1994 dopo essere stata approvata da tutti i partecipanti. Per modificare il testo finale devono essere riaperti i negoziati.

  • L’universalità dei partecipanti: le negoziazioni erano aperte a tutti gli Stati Membri delle Nazioni Unite, l’agenzia per l’energia atomica, il codice di giustizia internazionale, organizzazioni intergovernative, movimenti di liberazione nazionale e molti altri enti. Era una conferenza universale che garantiva la legittimità del processo di negoziazione.
  • La durata della negoziazione fu molto lunga: ci sono voluti 10 anni per completare il lavoro (1982) e 16 anni di lavoro da parte di Stati, osservatori e attori della comunità internazionale per produrre la Convenzione finale (1994).
  • Adottare una convenzione che tratti tutte le questioni relative al mare. La Convenzione finale è un documento molto completo, chiamato la Costituzione dell’Oceano, la cui portata geografica è enorme perché l’oceano copre più del 70% della superficie della Terra.

Come misura la linea di costa?

La linea di base, baseline in inglese, corrisponde al punto in cui si inizia a misurare la distanza dalla costa per stabilire il limite delle differenti zone. Nell’Articolo 5 della Convenzione è specificata la regola generale per definire e disegnare la linea di base.

La linea di base per misurare la vastità del mare territoriale è la linea di bassa marea lungo la costa, segnata su tutte le carte nautiche ufficialmente riconosciute dallo Stato costiero. Ma ci sono delle variazioni in base alla configurazione geografica della linea di costa, questioni storiche o economiche.

Alcuni esempi in cui si applicano eccezioni alla regola generale sono:

  • dove la linea di costa è profondamente frastagliata, incisa e presenta una frangia di isole lungo la costa nelle sue immediate vicinanze. In questo caso le linee di base seguono i punti più esterni della costa. Per esempio in Stati come Norvegia e Croazia.
  • baie storiche. Un esempio è il Golfo di Taranto, considerato parte delle acque territoriali italiane;
  • delta dei fiumi molto frastagliati, come in Bangladesh e Myanmar;
  • acque polari. Ci sono banchi di ghiaccio che si staccano dalla costa e quindi la linea di costa può cambiare;
  • stati arcipelagici (Stati composti da molte isole).

Dalla linea di base si inizia a misurare la distanza di tutte le altre aree definite dalla Convenzione.

Bibliografia:

  • https://www.un.org/depts/los/convention_agreements/texts/unclos/unclos_e.pdf
  • https://www.geopolitica.info/mare-relazioni-internazionali-parte3/
  • https://www.imo.org/en/OurWork/Legal/Pages/UnitedNationsConventionOnTheLawOfTheSea.aspx

Che cos’è il Trattato per la protezione dell’Alto Mare?

Copertina_Trattato Alto Mare

Da oggi, per una settimana, i leader mondiali si riuniscono nella sede delle Nazioni Unite di New York per negoziare un trattato per la protezione dell’oceano “Trattato per la protezione dell’Alto Mare” (UN High Seas Treaty). L’occasione è la quinta sessione della Conferenza intergovernativa sulla biodiversità marina delle aree al di là della giurisdizione nazionale (BBNJ).

L’Alto Mare è l’area di mare che si trova al di là della Zona Economica Esclusiva (ZEE) nazionale – oltre le 200 miglia nautiche dalla costa, se gli Stati hanno dichiarato la EEZ – e occupa circa due terzi dell’oceano. Questa zona fa parte delle acque internazionali, quindi al di fuori delle giurisdizioni nazionali, in cui tutti gli Stati hanno il diritto di pescare, navigare e fare ricerca, per esempio. Allo stesso tempo, l’Alto Mare svolge un ruolo vitale nel sostenere le attività di pesca, nel fornire habitat a specie cruciali per la salute del pianeta e nel mitigare l’impatto della crisi climatica.

Allo stesso tempo, nessun governo si assume la responsabilità della protezione e della gestione sostenibile delle risorse di Alto Mare, il che rende queste zone vulnerabili. Di conseguenza, alcuni degli ecosistemi più importanti del pianeta sono a rischio, con conseguente perdita di biodiversità e habitat. Secondo le stime, tra il 10% e il 15% delle specie marine è già a rischio estinzione.

Uno degli obiettivi del trattato è invertire il trend di declino della salute dell’oceano e della perdita di biodiversità ed ecosistemi per le generazioni future e per le popolazioni costiere che dipendono dal mare come fonte di cibo e sostentamento, reddito e svago.

Il dialogo per il Trattato per la protezione dell’Alto Mare si concluderà il 26 agosto e rappresenta il secondo momento del 2022 per trovare un terreno comune per l’oceano. La prima occasione è stata a fine giugno a Lisbona durante la Conferenza delle Nazioni Unite sull’Oceano.

Perché è importante il Trattato per la protezione dell’Alto Mare?

Circa il 70% dell’oceano è Alto Mare, l’ultima zona selvaggia e non propriamente regolamentata del pianeta. La vita marina che vive in queste zone è a rischio di sfruttamento, estinzione ed è vulnerabile alle crescenti minacce della crisi climatica, della pesca eccessiva e del traffico marittimo.
Poiché gli ecosistemi in Alto Mare sono scarsamente documentati, i ricercatori temono che gli organismi possano estinguersi prima di essere scoperti. Questo impedisce di studiare propriamente i ritmi di perdita di biodiversità del pianeta, sviluppare modelli previsionali sempre più accurati e accedere a nuove opportunità per le industrie farmaceutiche e di cosmesi.

Ad oggi, la gestione delle attività in mare e la tutela della biodiversità marina sono regolate dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS), firmata nel 1982 e rettificata da 158 Stati Membri. Questa Convenzione ha dei limiti, soprattutto sulle tematiche che riguardano l’Alto Mare e la tutela della biodiversità.

Gli Stati Membri delle Nazioni Unite, le Organizzazioni Non Governative, gli scienziati e i ricercatori ritengono che questo sia un momento cruciale per la definizione di un Trattato dell’Alto Mare che determinerà il futuro dell’oceano, soprattutto per quanto riguarda la gestione delle sue risorse. In occasione dei precedenti negoziati, l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) ha affermato che la “tradizionale natura frammentata della governance dell’oceano” ha impedito un’efficace protezione dell’Alto Mare.

Il Trattato per la protezione dell’Alto Mare è in fase di negoziazione da anni, ma gli Stati Membri non sono ancora riusciti a trovare un accordo. L’obiettivo ora è quello di rendere il trattato legalmente vincolante. Per questo, almeno 49 Paesi, tra cui il Regno Unito e i Paesi dell’Unione Europea, hanno dichiarato di impegnarsi maggiormente per riuscire a raggiungere un accordo.

Eliann Dipp_Pexels_Trattato di Alto Mare
Eliann Dipp da Pexels

Quali sono i punti salienti del Trattato dell’Alto Mare?

In questi ultimi decenni l’avanzare della tecnologia e delle strumentazioni innovative hanno reso l’Alto Mare sempre più accessibile e, di conseguenza, le sue risorse sempre più facilmente estraibili. Anche per questo motivo è importante affiancare questa storica regolamentazione con uno strumento più attuale, olistico e che includa leggi di tutela dell’Alto Mare e della biodiversità che si trova oltre i confini di giurisdizione nazionale.

Uno degli obiettivi più ambiziosi del Trattato per la protezione dell’Alto Mare è quello di tutelare il 30% dell’oceano entro il 2030 attraverso la creazione di una rete di Aree Marine Protette. Attualmente solo l’1,2% dell’oceano è sotto protezione totale.
Circa due anni fa, cinquanta Stati hanno dichiarato di impegnarsi per raggiungere l’obiettivo di protezione del 30% delle terre e dei mari del pianeta. Ma senza un accordo, questi impegni non hanno alcuna base giuridica in Alto Mare.

Inoltre, prima di autorizzare attività commerciali in Alto Mare, come l’estrazione di minerali e risorse in acque profonde, si dovranno effettuare valutazioni di impatto ambientale.

Infine, la negoziazione offre l’opportunità di discutere la tutela della biodiversità marina e delle specie migratorie; la gestione della ricerca di risorse genetiche marine che possono avere un valore commerciale o scientifico per lo sviluppo di farmaci, vaccini e altre applicazioni farmaceutiche, chimiche e cosmetiche; la condivisione dei beni comuni; e i benefici legati al trasferimento di conoscenza e tecnologie.

Un accordo sul Trattato sulla protezione dell’Alto Mare contribuisce notevolmente al raggiungimento dei target dell’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile 14 dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.

Obiettivo di Sviluppo Sostenibile 14_Decennio del Mare
Credit: Matt Curnock / Ocean Image Bank

A supporto del Trattato dell’Alto Mare

Peter Thomson, Inviato Speciale delle Nazioni Unite per l’Oceano ha espresso parole di speranza per la riuscita della negoziazione attraverso i canali di CBS News:

Dopo i grandi successi ottenuti quest’anno per la salute dell’oceano grazie all’Assemblea dell’Ambiente delle Nazioni Unite a Nairobi (UNNEA 5), dedicata all’inquinamento da plastica in mare, alla Conferenza ministeriale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio di Ginevra dedicata all’esclusione di sussidi a metodologie di pesca dannose e alla Conferenza delle Nazioni Unite sull’Oceano (UNOC) di Lisbona, sono fiducioso che gli Stati Membri cavalcheranno l’onda positiva del 2022 verso la tutela della salute dell’oceano concludendo un trattato per l’Alto Mare a New York questo mese.

Peter Thomson, Inviato Speciale delle Nazioni Unite per l’Oceano

Molly Powers-Tora, sostenitrice delle tematiche dell’oceano, ha ribadito l’importanza storica di questi negoziati:

Questa settimana tutti gli occhi sono puntati sulle Nazioni Unite per verificare se riusciremo a raggiungere un consenso su un accordo internazionale che ci permetterà di proteggere e gestire in modo sostenibile il nostro Oceano per le generazioni future.

Molly Powers-Tora, Ocean Advocate

Miguel de Serpa Sorares, che ha tenuto un discorso di apertura per dare il via ai negoziati ha proclamato:

Dato il terribile stato dell’oceano del mondo, è giunto il momento di agire. Come esprimere meglio la nostra determinazione ad agire se non concludendo un accordo resiliente che garantisca la conservazione e l’uso sostenibile della biodiversità nell’oceano globale.

Miguel de Serpa Sorares, Under-Secretary-General for Legal Affairs and UN Legal Counsel

Bibliografia:

Che cos’è il bluewashing? Come possiamo riconoscerlo?

Che cos'è il bluewashing_Decennio del Mare

Il termine greenwashing ormai fa parte della nostra quotidianità, ma cosa succede all’oceano? Sappiamo davvero che cos’è il greenwashing? E il bluewashing? E siamo in grado di riconoscerli e stare alla larga?

Si sente molto parlare di greenwashing, letteralmente «lavarsi la coscienza facendo qualcosa di verde». Con questo termine anglosassone si definisce il cosiddetto “ecologismo o ambientalismo di facciata”.
Il termine greenwashing deriva dall’espressione figurativa whitewashing, utilizzata comunemente per indicare un tentativo di occultare la verità per proteggere o migliorare la reputazione di enti, aziende, prodotti.

Quindi, che cos’è il bluewashing?

Per il bluewashing vale lo stesso discorso del greenwashing ma interessa tutte le parti “blu” del pianeta e gli organismi che le abitano: oceano, mari, fiumi, laghi.

Un oceano sempre più caldo e acido, perdita di biodiversità e di conseguenza eventi atmosferici più estremi come siccità, incendi, alluvioni e uragani, sono i primi segnali dell’avanzamento della crisi climatica. Non abbiamo molto tempo per agire. Per questo, come ha affermato il Segretario Generale delle Nazioni Unite ad inizio 2022, non possiamo permetterci di avere azioni di greenwashing in atto.

Il mondo è in corsa contro il tempo. Non possiamo permetterci di fare passi indietro, di fare passi falsi o di fare qualsiasi forma di greenwashing.
Dobbiamo garantire che gli impegni per l’azzeramento delle emissioni siano ambiziosi e credibili e che siano in linea con i più alti standard di integrità e trasparenza ambientale. Devono inoltre essere attuabili e tenere conto delle diverse circostanze.

Antonio Guterres, United Nations Secretary General

Dal greenwashing al bluewashing: una definizione delle strategie più utilizzate

Il greenwashing e il bluewashing sono strategie di marketing e comunicazione messe in atto da aziende, enti, organizzazioni e singoli individui per far passare un’immagine di sé attenta all’ambiente e sostenibile. In realtà, queste strategie cercano solo di spostare l’attenzione del consumatore dall’impatto negativo che l’ente coinvolto genera sull’ambiente.

Una strategia atta ad aumentare le vendite di un prodotto o migliorare la propria reputazione per acquisire nuovi clienti, aumentare il fatturato o rendersi leader in un determinato settore, senza però impegnarsi davvero per risolvere i problemi e rendere virtuoso il proprio operato.

In realtà, la comunicazione che viene portata avanti spesso omette informazioni importanti, che svelerebbero il vero impatto dell’azienda o dell’ente sull’ambiente. Termini generici e poco definiti ingannano i clienti facendo credere che l’azienda stia facendo più di quanto non faccia in realtà.

Con il termine greenwashing, ci si riferisce ad azioni volte più alla parte “verde” del pianeta: boschi, foreste e spazi green delle nostre città. Ma noi sappiamo che la stessa attenzione la merita anche il “blue” perché il 70% della superficie del pianeta è coperta da acqua, perché l’oceano è il più grande alleato che abbiamo nella mitigazione della crisi climatica e perché la nostra vita dipende dal blu. Anche l’oceano, le risorse idriche e la biodiversità marina non sono estranei a queste pratiche commerciali di facciata. Ed è qui che nasce il bluewashing.

Obiettivo di Sviluppo Sostenibile 14_Decennio del Mare

Il termine bluewashing non si interessa solo all’oceano, “blu” deriva anche dal colore del logo delle Nazioni Unite. Molte aziende, organizzazioni e enti di vario titolo cercano di associare il proprio nome alle Nazioni Unite (ONU) al solo scopo di pubblicizzare le proprie attività senza però davvero intraprendere azioni a supporto dei programmi ONU.

Un esempio è l’utilizzo degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030 come copertura per lavorare sotto l’egida dei principi formulati dall’ONU, ma senza operare e collaborare effettivamente in quella direzione.

È molto più semplice ed economicamente vantaggioso avviare una campagna di comunicazione e di marketing rispetto a rivedere tutta la strategia e le attività per includere buone pratiche all’interno del lavoro quotidiano.

Come riconoscere il bluewashing?

Con l’aumento dell’interesse delle persone e dei giovani verso le tematiche ambientali e sociali, ci sono sempre più enti che cercano di cavalcare l’onda per ingrandire la propria community e i propri clienti utilizzando tecniche sempre diverse e per questo sempre più difficili da riconoscere, soprattutto per chi non tratta quotidianamente questi argomenti.

Il bluewashing, va oltre il singolo prodotto, si può ritrovare anche nel vero e proprio operato e nella strategia attuata dall’azienda, ente, organizzazione o persona. Trasparenza, soprattutto, e coerenza a lungo termine sono i primi elementi che possiamo utilizzare per valutare l’operato di un determinato ente, azienda o organizzazione.

Alcuni punti per riconoscere in modo semplice alcune delle più comuni azioni di bluewashing:

1. Comunicazione accattivante e generica

La comunicazione è generica e non approfondisce i dettagli perché eseguita in assenza di un impegno concreto e maturo da parte dell’ente. Spesso vengono utilizzati termini come “sostenibile”, “ocean-friendly”, “green”, “basso impatto”, “zero emission”, “100% materiale riciclato”, “carbon neutral” senza riportare tutte le informazioni necessarie per poter valutare il vero impatto ambientale del prodotto.

In aggiunta, per attrarre il cliente e promuovere prodotti “sostenibili” spesso vengono utilizzati colori che non rispecchiano quelli soliti dell’azienda ma che richiamano la natura. Il beige, il verde e il blu sono i colori preferiti per le campagne di sostenibilità ambientale. In questo modo, il prodotto sembra avere un impatto positivo sull’ambiente, ma solo all’apparenza.

Per questo è importante non farsi ammaliare da una scritta o da una grafica ma bisogna andare a fondo. Il modo migliore per capire se un marchio è davvero responsabile dal punto di vista ambientale e sociale è cercare le informazioni nascoste in un prodotto cosiddetto ecologico. Sebbene un’azienda possa indicare l’uso di materiali riciclati o organici in un prodotto, potrebbe non rivelare come o dove il prodotto è stato realizzato o come sono stati reperiti i materiali.

Ricercare prove e dati: i numeri sono sempre più affidabili delle parole. Leggere le etichette, il sito web, cercare articoli e fare domande sulla tematica di cui parlano è fondamentale per capire quanto ne sanno, quanto si stanno impegnando e quanto sono davvero interessati all’argomento che stanno comunicando.

Un esercizio che possiamo fare? Provare a scegliere una crema solare a basso impatto sul mare da utilizzare questa estate.

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Photo by OCG Saving The Ocean on Unsplash

2. È un’iniziativa a breve termine

La temporalità dell’azione è importante, per essere concreta deve esserci un piano a lungo termine.

Se l’iniziativa, progetto o prodotto, è parte di un’edizione speciale, esclusiva, una tantum o a breve termine deve far suonare un campanello d’allarme. Non è raro infatti che vengano attivate campagne limitate solo ad una linea o ad un determinato arco temporale, come per esempio alla Giornata Mondiale dell’Oceano, dell’Ambiente o del Pianeta.

Altri esempi possono essere campagne di pulizie delle spiagge supportate da aziende non proprio attente all’ambiente. Di sicuro le pulizie delle spiagge hanno un impatto positivo sull’ambiente e, se fatte nel modo corretto, sono un ottimo strumento per fare educazione ambientale e per fornire dati a università e centri di ricerca. Ma se la pulizia viene svolta e promossa dall’ente solo a scopo comunicativo, resta un’attività fine a sé stessa per ripulire la reputazione e l’immagine del marchio.

Non facciamoci ingannare da una pubblicità, cerchiamo di sostenere chi si impegna quotidianamente per migliorare il proprio operato e l’ambiente in cui tutti noi viviamo.
Solo informandoci possiamo essere sicuri di investire nei marchi che adottano un approccio olistico, trovando nuovi modelli di business che integrino la sostenibilità al centro, invece di concentrarsi solo su un prodotto, una collezione o iniziativa specifica.

3. Non coinvolge istituzioni, centri di ricerca o enti esperti del settore

Spesso è un’iniziativa portata avanti da un’azienda e una sola organizzazione, senza coinvolgere le istituzioni o enti che lavorano quotidianamente per la tematica. Capire chi sta dietro la campagna e quali sono gli scopi finali dell’iniziativa è un passo in più per inquadrare l’azione all’interno di una strategia più ampia.

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©Matt Curnock – Ocean Image Bank

4. Privatizza un bene comune

Sulla scia di progetti internazionali come la UN Decade of Ecosystem Restoration, molti enti, organizzazioni e aziende hanno attivato o stanno per avviare progetti di rigenerazione e ripristino di ecosistemi per supportare o accelerare il recupero di un habitat o ecosistema specifico in seguito a danni, degrado o distruzione.
Questi progetti riguardano i boschi e le foreste ma anche il mare, attraverso iniziative di ripristino di scogliere coralline, foreste di mangrovie, Cystoseira (ora Ericaria) o praterie di Posidonia. E fin qui, tutto regolare.

Questi progetti però richiedono molta cautela, attenzione e conoscenza del settore. Posizionare una specie sbagliata può provocare più danni che benefici all’ambiente. Allo stesso modo, attuare un progetto di rigenerazione senza eradicare il problema che ha portato al danneggiamento dell’ecosistema è un investimento a doppia perdita: capitale e ambientale.
Perché i progetti di rigenerazione, riforestazione e ripristino abbiano successo è necessario un lavoro di totale collaborazione con università, enti di ricerca, istituzioni, aziende e comunità locali.

Per questo, è fondamentale – prima di comprare o adottare una pianta o un corallo, per esempio – informarsi sulla natura e sulle premesse dell’intero progetto che il nostro acquisto andrebbe a sostenere.

Cosa possiamo fare noi?

Ricordiamo che il greenwashing non è necessariamente legato all’attività di un’azienda, ma può essere portato avanti anche da persone, organizzazioni, fondazioni e enti pubblici più o meno consciamente.
Attualmente la sostenibilità è un trend in forte crescita e per farsi trovare aggiornati e non rischiare di sostenere azioni di greenwashing e bluewashing bisogna investire tempo, informarsi e studiare molto.

Prima di acquistare un prodotto o supportare un ente o un’iniziativa è importante informarsi e fare domande. Se l’ente è trasparente e non ha nulla da nascondere sarà disponibile a fornire tutte le richieste di cui avete bisogno e rispondere a dubbi e curiosità.

Come ha riportato la Specialista di Programma di IOC-UNESCO Francesca Santoro al Festival Green&Blue di la Repubblica, non è facile. L’importante è far capire agli enti che i progetti vanno creati su valori comuni. Non è semplicemente uno scambio di denaro tra profit e no-profit, cliente e azienda, o tra profit e ricerca. Le aziende possono cambiare modo di produrre e comunicare meglio le loro attività.

Non è facile trovare realtà che lavorano con la missione comune di contribuire al benessere ambientale senza avere come scopo la ricerca di un vantaggio di mercato e commerciale. La responsabilità è di ognuno di noi. Anche nella scelta di chi supportare.

Fonti:

https://news.un.org/en/story/2022/04/1117062

https://www.theguardian.com/sustainable-business/2016/aug/20/greenwashing-environmentalism-lies-companies

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0195925520301529

https://www.decadeonrestoration.org

Chi era James Lovelock: dalla Cornovaglia alla NASA, una vita per la scienza

Chi era James Lovelock_Decennio del Mare

James Lovelock è stato uno scienziato, un ricercatore indipendente e uno scrittore britannico noto in tutto il mondo per aver ipotizzato la Teoria di Gaia, che descrive la Terra come un essere vivente in cui organismi e materia sono interconnessi.

Dalla Terra allo spazio, una vita per la scienza

Nato nel 1919 in Inghilterra, James Lovelock si laurea in chimica all’Università di Manchester e si specializza in ricerca medica a Londra. Poi vola negli Stati Uniti dove lavora come ricercatore in prestigiose istituzioni come Yale e Harvard. 

Inizia a collaborare con la National Aeronautics and Space Administration, semplicemente nota come NASA, lavorando allo sviluppo di numerosi sensori e strumenti utili per la ricerca e la raccolta di dati atmosferici e nello spazio.

Lovelock realizzò uno strumento utile per identificare la presenza di Clorofluorocarburi (CFC) nell’atmosfera, gas sintetici ritenuti i principali responsabili della riduzione della quantità di ozono nell’atmosfera terrestre e quindi dell’aumento delle radiazioni UV che raggiungono la superficie terrestre.
Grazie a a questa scoperta, il 16 settembre 1987 fu firmato il protocollo di Montréal, un trattato internazionale negoziato con lo scopo di ridurre e la produzione e l’uso di sostanze che danneggiano lo strato di ozono. Trattato descritto da Kofi Annan, all’epoca Segretario Generale dell’ONU, come esempio di eccezionale cooperazione internazionale. 

Ma la sua collaborazione con la NASA andò oltre la Terra. Il ricercatore collaborò anche allo studio di Marte come possibile pianeta per la scoperta di forme di vita extraterrestri. Studiò la composizione dell’atmosfera di Marte e collaborò alla missione Viking progettando strumenti per l’analisi della composizione dell’atmosfera di Marte.

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A simulated view of Mars as it would be seen from the Mars Global Surveyor spacecraft ©NASA da Unsplash

La Teoria (o ipotesi) di Gaia

l motivo per cui James Lovelock è famoso ai più è la Teoria di Gaia, il cui nome deriva dalla dea greca della Terra, sviluppata negli anni ’70 durante la collaborazione con la NASA e la biologa statunitense Lynn Margulis. 

La Terra è vista come un sistema di autoregolazione che mantiene le proprie condizioni chimico-fisiche (temperatura media, pH, quantità di gas…) idonee allo sviluppo della vita, proprio grazie all’attività degli organismi viventi. Fin dall’origine della vita, gli organismi hanno avuto un profondo effetto sulla composizione dell’atmosfera e sul clima della Terra.

Questa teoria gettò le basi per una nuova modalità di fare scienza e ricerca avviando un nuovo modo di guardare all’ecologia e all’evoluzione globale, discostandosi così dall’immagine classica dell’ecologia come risposta biologica a una serie di condizioni fisiche. L’idea di una co-evoluzione della biologia e dell’ambiente fisico, in cui una influenza l’altro, è stata suggerita già a metà del 1700, ma mai con la stessa forza di Gaia, che rivendica il potere della vita di controllare e influire sull’ambiente abiotico. 

In tempi più recenti, l’ipotesi originale di Gaia è stata più volte revisionata come conseguenza a una maggiore conoscenza scientifica. Le ricerche sui comportamenti intrinseci dei sistemi complessi possono contribuire ulteriormente a chiarire la possibilità di applicare le nozioni gaiane ai sistemi ecologici e fisici della Terra.

L’ipotesi Gaia è descritta nel libro pubblicato nel 1979 “Gaia, nuove idee sulla’ecologia”.

Chi era James Lovelock_Decennio del Mare
View of the Earth as seen by the Apollo 17 crew traveling toward the moon. ©NASA da Unsplash

Lo studio del cambiamento climatico e le allerte, già più di 50 anni fa

Lovelock non si è dedicato solo all’ipotesi Gaia e al lavoro per la NASA sullo spazio, ma ha trascorso la sua vita a sostenere di intraprendere misure contro la crisi climatica, iniziando molti anni prima che altri ricercatori e attivisti prendessero atto della crisi in corso.

Jonathan Watts, redattore globale per l’ambiente del Guardian, riporta che senza gli studi e le azioni di Lovelock, i movimenti ambientalisti di tutto il mondo sarebbero nati più tardi e avrebbero preso una strada molto diversa. Infatti, negli anni ’60 ha lanciato uno dei primi avvertimenti sul fatto che i combustibili fossili stessero destabilizzando il clima. 

Prima dell’inizio della Conferenza delle Parti di Glasgow (COP26), in un articolo scritto da lui per il Guardian a novembre 2021, in cui qui riportiamo una parte tradotta in italiano, Lovelock ha riferito che:

Non so se sia troppo tardi per l’umanità per evitare una catastrofe climatica, ma sono certo che non ci siano possibilità se continuiamo a trattare il riscaldamento globale e la distruzione della natura come problemi separati. Questa divisione è un errore, come quello commesso dalle università quando insegnano chimica in una classe diversa da biologia e fisica. È impossibile comprendere queste materie in modo isolato, perché sono interconnesse.
Lo stesso vale per gli organismi viventi che influenzano notevolmente l’ambiente globale. La composizione dell’atmosfera terrestre e la temperatura della superficie sono attivamente mantenute e regolate dalla biosfera, dalla vita.

Il riscaldamento globale è causato in gran parte dall’estrazione e dalla combustione di combustibili fossili a partire dalla metà del XIX secolo, i quali rilasciano metano, biossido di carbonio e altri gas serra nell’atmosfera. Questi assorbono il calore radiante e ne impediscono la fuoriuscita dalla Terra, causando il riscaldamento globale.

Gli avvertimenti che un tempo sembravano scenari di fantascienza si stanno ora avverando. Stiamo entrando in un’era in cui la temperatura e il livello del mare aumenteranno di decennio in decennio fino a rendere il mondo irriconoscibile. Potrebbero esserci altre sorprese. La natura è non lineare e imprevedibile, soprattutto in un momento di transizione. 

James Lovelock per il Guardian, novembre 2021

Le ricerche e le posizioni di Lovelock sono state più volte contraddette e pensate come controverse dai colleghi, partendo dall’Ipotesi di Gaia fino al sostegno dell’energia nucleare. Ora molti sono d’accordo con il suo punto di vista.

Chi era James Lovelock_Decennio del Mare
©Markus Spiske da Unsplash

Bibliografia:

10 libri di mare da leggere al mare

Libri di mare_Decennio del Mare

Nella borsa per le vacanze non possono mancare il costume, la crema solare amica del mare, la maschera, le pinne e… qualche libro da leggere sotto l’ombrellone, in barca o su uno scoglio. Ma non libri qualsiasi, libri di mare da leggere dopo una fresca nuotata tra le limpide acque mediterranee. Qui di seguito 10 titoli consigliati dal team del Decennio del Mare.

Vi invitiamo ad entrare nella libreria indipendente vicino a casa, in biblioteca o nei rivenditori second-hand e cercare tra i saggi storici, libri di narrativa e i nuovi titoli. Se viaggiate leggeri e utilizzate un tablet o un ebook, molti libri sono disponibili anche in formato digitale.

1. The Passenger “Oceano

Non potevamo non iniziare con “Oceano”, il nuovo The Passenger Magazine edito Iperborea dedicato proprio all’oceano, protagonista del nostro pianeta e del nostro futuro. Il libro è stato pubblicato l’8 giugno, Giornata Mondiale dell’Oceano, in collaborazione con il Decennio delle Nazioni Unite delle Scienze del Mare per lo Sviluppo Sostenibile.

Per farci immergere e navigare nel profondo blu, Iperborea e il team del Decennio hanno selezionato testimoni d’eccezione tra cui Sylvia Earle, icona mondiale dell’oceanografia, Kerstin Forsberg, biologa marina peruviana specializzata nella tutela delle mante, il velista Giovanni Soldini che ci racconta – insieme al climatologo Antonello Provenzale – come ha visto cambiare l’oceano in tanti anni di traversate e Richard Hamblyn, che spiega come nasce e si sviluppa un’onda.

I due reportage sono firmati da Tabitha Lasley, che ci porta a bordo delle piattaforme petrolifere del Mare del Nord, e dai norvegesi Eskil Engdal e Kjetil Sæter, che ripercorrono l’inseguimento più lungo della storia marinaresca: la caccia alla Thunder, nave da pesca illegale, tra le acque dell’Antartide.

E poi, ancora, si parla di trasporto marittimo con la giornalista Rose George, di vagabondi del mare con Valentina Pigmei, di balene con lo scrittore e appassionato Philip Hoare e della favola dell’Hōkūle‘a raccontata da Simon Winchester.

“The Passenger – Oceano” è uno strumento attivo di Ocean Literacy – il programma di Educazione all’Oceano IOC-UNESCO – per conoscere meglio il nostro miglior alleato nella lotta alla crisi climatica.

2. La vita che brilla sulla riva del mare. Rachel Carson

Rachel Carson, pioniera del movimento ambientalista e della riflessione ecofemminista del ‘900, è famosa ai più per la sua opera “Primavera silenziosa”, pubblicata nel 1962 e tutt’ora attuale come pietra miliare dell’ambientalismo.

Non molti sanno, però, che la sua carriera letteraria è iniziata con la pubblicazione di tre volumi dedicati al mare: Under the sea wind, The sea around us e The edge of the sea. Il terzo volume della serie, uscito nel 1955, non era stato mai pubblicato in italiano fino ad ora.

Quest’anno, Aboca Edizioni ha pubblicato quest’ultimo saggio con il titolo La vita che brilla sulla riva del mare. Nel presentare le forme di vita che popolano la costa, l’autrice ci porta a esplorare una pozza di marea, una grotta inaccessibile, a osservare un granchio solitario sulla spiaggia a mezzanotte: grazie a questi e ad altri incontri ci offre non solo uno studio precisissimo sull’ecologia della costa, ma anche un racconto potente ed evocativo sul fragile equilibrio della vita che si trova in riva al mare.

Arricchito da un’introduzione di Margaret Atwood che celebra la lungimiranza della Carson nell’aver intuito il ruolo cruciale dell’oceano per la salute del pianeta e corredato dalle illustrazioni di Bob Hines, presenti anche nell’edizione originale, utilissime per orientare i lettori nel riconoscimento delle piante e degli animali descritti in queste pagine.

La vita che brilla sulla riva del mare è una guida sentimentale di straordinaria accuratezza scientifica per tutti gli amanti del mare e delle grandi letture senza tempo.

3. Storia del mare. Alessandro Vanoli

Alessandro Vanoli, storico e voce del Decennio del Mare, ha deciso di intraprendere un’avventura per narrare una storia del mare che tenga assieme tutto, umanità e animali. Un viaggio del genere intende essere un racconto, fatto di volti, immagini, suoni e colori, con la speranza di restituire un po’ di quello stupore che gli abissi ci hanno sempre dato.

Edito Editori Laterza, Storia del mare comincia in un infinito passato, quattro miliardi di anni fa, raccontando una geologia antica e gli inizi della vita, i dinosauri e i pesci primitivi, i mari scomparsi e le grandi catastrofi. E poi giù negli abissi, per riemergere tra barriere coralline, zone acquitrinose, scogli o spiagge di sabbia.
Quindi naturalmente la storia. Quella delle prime colonizzazioni, dei mezzi e delle antiche imbarcazioni per affrontare il mare e della nascita dei porti. La storia dei grandi miti, quelli biblici e quelli omerici. E le civiltà: i fenici, i greci, i romani; e attorno a questo le rotte dei mercanti, le storie delle anfore, del corallo; i racconti dei pellegrini e dei vichinghi in America e dei cinesi nell’Oceano Indiano.
Una storia fatta anche delle cose più note: la bussola, le caravelle, Cristoforo Colombo, Magellano, Vespucci e i pirati dei Caraibi. Senza mai dimenticare che tutto questo ha a che fare anche con le balene e gli squali, con i tesori nascosti, con le leggende del kraken, del maelstrom, dell’olandese volante e di tutto quanto ha alimentato la nostra fantasia per secoli.
Sino al presente, ovviamente, alla crisi ambientale e allo scioglimento dei ghiacci.

Come riporta l’editore, «Perché fare una storia del mare vuol dire sì parlare dei nostri sogni più profondi, ma anche ricordarci che alla fine siamo solo una specie tra altre specie. Siamo parte del mare ed è questa forse la cosa che più conta in tutta questa avventura millenaria».

4. Quest’ora sommersa. Emiliano Poddi

A centouno anni Leni Riefenstahl nuota tranquilla sui fondali delle Maldive: è la sua ultima immersione, l’ultima volta in cui potrà catturare con i suoi scatti le creature della barriera corallina. Appena dietro di lei c’è Martha, biologa marina trentanovenne, che ha il compito di scortarla sott’acqua. In effetti Martha non è lì per caso: da moltissimo tempo segue Leni, sia pure a distanza. Per anni ha raccolto notizie sulla “regista di Hitler” e le ha riordinate in schede divise per argomenti – citazioni, incidenti, abitudini sessuali –, tutti disperati tentativi di classificazione cui quella donna enigmatica sfugge sempre.
Ora Martha ha l’occasione di studiare Leni da vicino, di tornare indietro, di starle addosso. Di scoprire, forse, perché nel ’41 ha fatto quello che ha fatto alla sua famiglia.

Quest’ora sommersa mette in scena il confronto tra due donne diverse per età, origini, indole e scelte etiche. Figura dolorosa la prima, che sceglie la vita contro la morte, la biologia contro la storia; autoritaria, manipolatrice, pronta a sacrificare qualunque cosa all’estetica, la seconda: entrambe immerse in un mondo liquido dove il respiro e i movimenti seguono altre leggi, dove un’ora può dilatarsi fino ad abbracciare un secolo. 

5. Oceano, una navigazione filosofica. Roberto Casati

Dipendiamo dal mare come risorsa per respirare, per nutrirci, e anche per sognare. Il mare fa parte del nostro ambiente pur restando un mondo altro, temibile quanto irresistibilmente suggestivo, un altrove radicale. Ma è proprio questa sua alterità a permetterci di ripensarlo da una prospettiva inedita, per capire in che misura esso ha fatto di noi quello che siamo, indicandoci quello che dovremmo diventare.

Oceano, una navigazione filosofica è un libro edito Einaudi che descrive l’opera come «un viaggio dentro il mare aperto, siamo un pensiero in movimento. Ci scopriamo accanto all’autore mentre attraversa l’Oceano su una barca a vela in veste di marinaio/filosofo. Perché navigare ci trasforma, asseconda il nostro desiderio di conoscenza e apre le porte della percezione. Veleggiare dentro uno spazio di libertà senza confini che dialoga con il cielo muta radicalmente il nostro rapporto con l’ambiente, con le persone e persino con gli oggetti. La barca diventa una scuola di vita che ci obbliga a pensare ogni cosa da capo per agire in modo nuovo. Dà vita a una forma di conoscenza attiva, costruita dall’azione: una filosofia del mare.»

6. La saggezza del mare. Björn Larsson

Sofia Rossi su Youmast ha descritto lo scrittore scandinavo Björn Larsson come «L’amore per il mare e per la navigazione, le vicende sentimentali tormentate e la passione per la lingua francese e per Parigi sono elementi della sua vita che Larsson rilegge in un’unica chiave: quell’imprescindibile bisogno di libertà che dà il titolo alla sua opera».

Edito Iperborea, ne La saggezza del mare l’autore riflette sulla vita come la si vede dal pozzetto e dal ponte di una barca a vela. Descritto dalla casa editrice come una sorta di diario di bordo interiore tenuto negli anni passati senza fissa dimora con la barca come unica casa, navigando nell’Atlantico e nel Mare del Nord, tra Scozia, Irlanda, Galles, Bretagna, Galizia ed Ebridi, lasciando che i pensieri seguano l’umore del vento e il ritmo delle onde, mossi da epiche traversate, dagli ancoraggi di porto in porto, da incontri e da solitudini, da paesaggi e letture, cercando di capire perché è così forte su molti l’attrazione del mare da preferirne i rischi e i disagi alla comoda sicurezza della terraferma e quale segreta armonia c’è tra il suo costante moto e le più profonde aspirazioni umane.

Il bisogno di libertà, per esempio, dal superfluo e dai condizionamenti, dalle convenzioni e dal cartellino da timbrare, che è l’immediata conquista del navigare, il tornare nomadi e vagabondi, legati al presente e all’essenziale, ritrovando nella lentezza della vela il ritmo del camminare, l’apertura agli altri, le chiacchierate sotto le stelle, la felicità di superare i propri limiti senza altri testimoni che gli elementi. 

7. Il vecchio e il mare. Ernest Hemingway

Un classico romanzo letterario che non si può perdere. Premiato con il premio Pulitzer nel 1953, fu l’ultima opera di narrativa scritta in vita da Ernest Hemingway.

Santiago è un vecchio pescatore che da 84 giorni non riesce a pescare neanche un pesce, eppure, raccoglie le forze e riprende il mare per una nuova battuta di pesca che ha il sapore di un’iniziazione. Nella disperata caccia a un enorme marlin nel mare dei Caraibi, nella lotta quasi a mani nude contro gli squali che un pezzo alla volta gli strappano la preda, lasciandogli solo il simbolo della vittoria e della maledizione finalmente sconfitta. In questo momento, Santiago stabilisce, forse per la prima volta, una vera fratellanza con le forze incontenibili della natura. E, soprattutto, trova dentro di sé il segno e la presenza del proprio coraggio, la giustificazione di tutta una vita.

8. Il libro del mare. Morten A. Strøksnes

Il libro del mare edito Iperborea è la storia vera di due amici, Morten Strøksnes e un eccentrico artista-pescatore, che con un piccolo gommone e quattrocento metri di lenza partono alla caccia di questo temuto abitante dei fiordi. Ma Il libro del mare è anche una riflessione sulla storia naturale dell’uomo, che è arrivato a mappare l’intero globo e a navigare tra le stelle, eppure sembra conservare un’ossessione per il mito del mostro, forse per un atavico istinto predatorio, o per la paura dell’ignoto che ancora oggi il mare ci risveglia. 

Nelle profondità del mare intorno alle isole Lofoten vive il grande squalo della Groenlandia, un predatore ancestrale nonché il vertebrato più longevo del pianeta, tanto che oggi potremmo imbatterci in un esemplare nato prima che Copernico scoprisse che era la terra a girare intorno al sole. 

9. Il Mediterraneo in barca. Georges Simenon

Il noto scrittore Georges Simenon, tra il 1931 e il 1956 lavorò come reporter per finanziare la sua curiosità. Così, alla vigilia di ogni viaggio, Simenon andava da un amico caporedattore e gli diceva: «La settimana prossima parto. Le interessano dodici articoli?». Ma proprio perché concepiti in funzione dell’unica attività che gli stesse a cuore, la scrittura – non a caso ha voluto intitolare il volume che li raccoglie Mes apprentissages («Il mio apprendistato») –, i suoi pezzi giornalistici non fanno dunque che rivelarci un’altra faccia del Simenon romanziere.

Lo scrittore ha dichiarato «Ho sempre colto la differenza fra l’uomo vestito e l’uomo nudo. Intendo dire l’uomo com’è davvero, e l’uomo come si mostra in pubblico, e anche come si vede allo specchio». 

In questo viaggio tra le acque del Mediterraneo – da Porquerolles alla Tunisia passando dall’Elba, Messina, Siracusa, Malta – a bordo di una goletta, Simenon non riesce a limitarsi a capire e descrivere il Mare nostrum ma si conferma nella sua vera vocazione: raccontare storie.

10. Leviatano ovvero la balena. Philip Hoare

Un opera edita Einaudi nel 2013, che porta alla scoperta dei segreti più intimi delle balene e della stretta relazione tra l’umanità e questi incredibili mammiferi.

Partendo di volta in volta da un aneddoto, una storia, un ricordo personale, una pagina di libro epico o sacro, un esperimento scientifico o una esplorazione geografica, Hoare ricostruisce con maestria mondi interi, scoperte meravigliose nello spazio e nel tempo (e soprattutto in mare).

I cetacei erano simboli di ricchezza e potere: la corona britannica era consacrata con l’olio di balena, e un dente di balena istoriato con il sigillo presidenziale accompagnò Kennedy nel suo ultimo viaggio. La moglie l’aveva acquistato come regalo, ma il presidente non fece in tempo a vederlo e la sera prima del funerale Jacqueline lo mise nella bara del marito. Un gesto d’affetto e dal forte valore simbolico, che rimandava ai re medievali sepolti con i simboli del potere, come talismani che riflettevano il valore di chi li aveva posseduti.

UNESCO presenta il nuovo Rapporto sullo Stato dell’Oceano

UNESCO presenta il nuovo Rapporto sullo Stato dell'Oceano_UNESCO_Decennio del Mare

In occasione della seconda Conferenza delle Nazioni Unite sull’Oceano, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO) ha lanciato il nuovo Rapporto sullo Stato dell’Oceano, State of the Ocean Report in inglese, che offre una panoramica sintetica e accessibile sullo stato attuale dell’oceano e mobilita la società globale ad agire – e a monitorare i progressi – verso gli obiettivi globali.

Il primo Rapporto sullo Stato dell’Oceano

Il primo rapporto è stato pubblicato come edizione pilota grazie al contributo si oltre 100 esperti in tutti i principali campi delle scienze marine, tra cui acidificazione, deossigenazione, inquinamento, allerta precoce degli tsunami, pianificazione dello spazio marino, gestione dei dati e infrastrutture abilitanti. Le future edizioni inviteranno anche altre agenzie delle Nazioni Unite a contribuire, seguendo il modello del Rapporto sullo Stato del Clima, pubblicato regolarmente dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale.

Il Rapporto aiuterà a monitorare in modo efficiente i progressi del Decennio del Mare e, col tempo, potrà diventare una pubblicazione attesa a livello mondiale che contribuirà in modo significativo a mobilitare la società globale ad agire verso “l’oceano di cui abbiamo bisogno per il futuro che vogliamo”.

Vladimir Ryabinin, Segretario Esecutivo IOC-UNESCO
UNESCO presenta il nuovo Rapporto sullo Stato dell'Oceano_UNESCO_Decennio del Mare
Before and after coral restoration near Komodo. © Martin Colognoli / Ocean Image Bank

Il Rapporto raccoglie in modo sintetico le conoscenze più aggiornate sullo stato dell’oceano – dall’inquinamento alla biodiversità -. Uno strumento che riporta tutte le informazioni chiave di cui i responsabili politici e imprenditori hanno bisogno per prendere decisioni informate sulla protezione dell’ambiente marino e sulla pianificazione dello spazio marittimo. Per dare un ordine e rendere facilmente fruibili le informazioni, la pubblicazione segue le 10 sfide del Decennio del Mare.

Questa edizione pilota del Rapporto sullo Stato dell’Oceano è stata sviluppata da IOC-UNESCO per dimostrare la fattibilità di tenere il mondo aggiornato sullo stato attuale dell’oceano. È intesa come complementare ad altre valutazioni, come il World Ocean Assessment e i rapporti del Gruppo Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (IPCC) e della Piattaforma Intergovernativa Scienza-politica sulla Biodiversità e i Servizi Ecosistemici (IPBES). 

Alcuni dati estrapolati dal rapporto

  • La perdita di habitat è un problema globale. Si è assistito a un rapido declino delle barriere coralline, delle praterie di fanerogame marine e delle zone umide costiere. Uno dei fattori è il cambio nelle proporzioni nella quantità dei singoli nutrienti che raggiungono l’oceano a partire dai fiumi.
  • È allarmante il fatto che l’oceano stia perdendo ossigeno rapidamente, un ritmo stimato al 2% dal 1960 e che probabilmente non ha precedenti nella storia recente della Terra.
  • Alterazioni nella struttura delle reti alimentari sono spesso osservate a causa dell’eutrofizzazione negli ecosistemi marini costieri, con cambiamenti nella struttura delle comunità bentoniche e un calo dello zooplancton che influisce sulla produzione ittica commerciale.
  • Si ritiene che il fondale dell’oceano sia la destinazione di gran parte della plastica che entra nell’oceano, ma è anche la regione più scarsamente descritta. Un’analisi ha rivelato che circa il 30-40% degli oggetti individuati in profondità era costituito da macroplastica e fino al 90% di questi, in acque più profonde di 6.000 m, erano oggetti monouso.
  • L’acidificazione dell’oceano continuerà ad aumentare: si prevede che il pH della superficie dell’oceano aperto diminuirà di circa 0,3 unità entro il 2081-2100, rispetto al periodo 2006-2015, in base all’RCP8.5 (IPCC, 2019). Nonostante il numero crescente di stazioni di osservazione per raccogliere dati sull’acidificazione, l’attuale copertura è inadeguata.
  • Il riscaldamento climatico è stato correlato con lo spostamento di migliaia di specie marine dalle basse alle medie latitudini, soprattutto nell’emisfero settentrionale. Tuttavia, il principale rischio di estinzione per la biodiversità marina rimane la pesca, sia direttamente che attraverso le catture accessorie e gli impatti della pesca a strascico sugli habitat dei fondali marini.
  • Gli studi condotti hanno dimostrato che il tasso di innalzamento medio globale del livello del mare ha subito un’accelerazione passando da 2,1 mm/anno nel periodo 1993-2002 a 4,7 mm/anno nel periodo 2013-2021.
  • Migliorare l’educazione all’oceano a livello globale è fondamentale per la sostenibilità futura dell’oceano, delle coste e dei mari. Guardando al futuro, le iniziative globali beneficeranno degli investimenti nel quadro d’azione per l’oceano, rafforzato attraverso il programma Ocean Literacy With All (OLWA), lanciato nel 2021.

Quando uscirà il prossimo Rapporto sullo Stato dell’Oceano?

Il Rapporto sullo Stato dell’Oceano adi UNESCO verrà pubblicato ogni anno per la Giornata Mondiale dell’Oceano delle Nazioni Unite.

Chi è e di cosa si occupa IOC-UNESCO?

IOC-UNESCO, ente alla guida del nuovo rapporto, è il principale organismo delle Nazioni Unite per la promozione e il coordinamento internazionale delle scienze marine. La missione di IOC-UNESCO è di migliorare la gestione dell’oceano, delle coste e delle risorse marine a livello globale. Ospitata all’interno dell’UNESCO, la Commissione consente a 150 Stati Membri di lavorare insieme coordinando i programmi di sviluppo delle capacità, le osservazioni e i servizi oceanici, le scienze oceaniche e l’allarme tsunami. L’impegno di IOC-UNESCO ha lo scopo finale di promuovere soluzioni basate sulla scienza per questioni economiche e sociali fondamentali.

Bibliografia:

UNESCO Press Release: https://ioc.unesco.org/news/unesco-launches-new-state-ocean-report-monitor-progress-meeting-global-goals

Lettera al Mar Mediterraneo

Lettera al Mar Mediterraneo_Decennio del Mare

Per la Giornata del Mar Mediterraneo abbiamo deciso di dedicargli una lettera: la “Lettera al Mar Mediterraneo”. Un modo per rinnovare il nostro impegno per la sua tutela, per educarci al mare ogni giorno, per conoscerlo meglio promuovendo la ricerca oceanografica, per rinnovare la nostra curiosità e attenzione nei suoi confronti.

Caro Mediterraneo,

ci fai da casa, respiro e vista mare. 
Ma noi ti amiamo male.

Caro Mediterraneo,

Di tutti i mari del mondo, sei il più sovrapescato e anche se le cose stanno migliorando, c’è un po’ di strada da fare per preservare le tue specie e le tue risorse.

Caro Mediterraneo,

Sei tanto salato, e uno dei più caldi anche in profondità, e purtroppo così rovente non sei stato mai: sei caldo come se ti scoppiassero dentro 7 bombe atomiche al secondo

Caro Mediterraneo,

La colpa è nostra, ma te lo giuriamo: ti vogliamo un gran bene. È per questo che veniamo sempre a trovarti: sei di gran lunga la meta turistica preferita da viaggiatori e viaggiatrici di tutto il mondo.

Caro Mediterraneo,

Devi crederci, però, quando ti diciamo che ce la stiamo davvero mettendo tutta, e abbiamo dedicato alle scienze del mare questi 10 anni per curare anche te.

Caro Mediterraneo,

Quest’estate – promesso – non sprecheremo né disperderemo nulla che possa arrivare nelle tue acque a dare fastidio a te e alle tue specie.

Caro Mediterraneo,

Ti promettiamo di godere della tua presenza per quello che è: una benedizione.

e soprattutto, caro Mediterraneo,

ti promettiamo di vederti: perché non c’è modo più vero di amare qualcuno.

Guardaci anche tu, mentre ci mettiamo la maschera e il boccaglio e ammiriamo le tue immense ricchezze: allora sentirai di essere amato.

Lettera al Mar Mediterraneo_Decennio del Mare
Artiom Vallat da Unsplash

UNESCO Tsunami Ready: 100% delle comunità costiere a rischio tsunami formate entro il 2030

Blue Schools Network

Alla Conferenza delle Nazioni Unite sull’Oceano, Audrey Azoulay, DG dell’UNESCO, ha annunciato un nuovo programma globale per garantire che il 100% delle comunità costiere sia “pronto per gli tsunami” entro il 2030. In questa occasione è anche stata nominata “UNESCO Champion for the Ocean And Youth” Maya Gabeira, surfista brasiliana di Big Wave.

La Commissione Oceanografica Intergovernativa dell’UNESCO è alla guida del Decennio delle Nazioni Unite delle Scienze del Mare per lo Sviluppo Sostenibile dal 2021 al 2030. Uno degli obiettivi del Decennio del Mare è proprio quello di avere un’oceano sicuro, accessibile e predicibile. Perseguendo questa visione, il programma UNESCO “Tsunami Ready” porterà alla formazione di tutte le comunità costiere a rischio tsunami.

Per diventare “Tsunami Ready”, una comunità deve:

  • sviluppare un piano di riduzione del rischio tsunami
  • designare e mappare le zone a rischio tsunami
  • sviluppare materiali di sensibilizzazione e di educazione pubblica
  • creare mappe di evacuazione dello tsunami di facile consultazione
  • e mostrare pubblicamente le informazioni sullo tsunami.

Il sistema globale di allerta tsunami, guidato dall’UNESCO, è particolarmente efficace nel rilevare rapidamente gli tsunami. Ma dare l’allarme non basta: per salvare vite umane, le comunità costiere devono anche essere addestrate a rispondere nel modo giusto. L’UNESCO si sta impegnando a formarle in tutto il mondo entro il 2030.

Audrey Azoulay, Director-General of UNESCO
Blue Schools Network
Matt Hardy from Pexels

Quaranta comunità pilota formate con successo

Già sperimentato in quaranta comunità in 21 Paesi, il programma UNESCO Tsunami Ready sarà esteso a livello globale ad altre comunità costiere vulnerabili. Il programma prevede dodici indicatori adattati a livello locale che coprono tutte le fasi, dalla valutazione del pericolo alla preparazione e alla risposta.

I partner principali si sono già fatti avanti per sostenere l’impegno. Tra loro troviamo la Strategia Internazionale delle Nazioni Unite per la riduzione dei disastri (UNDRR), l’Unione Europea e i principali Paesi donatori come Australia, Giappone, Norvegia e Stati Uniti.

Gli tsunami hanno un impatto diverso sulle comunità, non esiste un piano unico per tutti. Ora, attraverso questo nuovo programma, tutte le comunità possono attingere all’esperienza dell’UNESCO per costruire una strategia su misura per i fattori di rischio locali. Per mantenere questo ambizioso impegno, mobiliteremo ingenti risorse finanziarie facendo leva su importanti partenariati.

Vladimir Ryabinin, Executive Secretary IOC-UNESCO

Una minaccia in tutte le regioni del mondo

Gli tsunami si verificano relativamente di rado, ma più spesso di quanto si pensi. Il Centro di allerta tsunami dell’UNESCO, localizzato nella regione del Pacifico e ospitato dagli Stati Uniti, ha risposto da solo a 125 eventi di tsunami, con una media di 7 all’anno.

Sebbene la maggior parte degli tsunami colpisca le popolazioni costiere delle regioni del Pacifico e Indiano, tutte le regioni oceaniche sono a rischio. Le statistiche mostrano che la probabilità di un’onda di tsunami superiore a 1 metro nel Mediterraneo nei prossimi 30 anni è vicina al 100%.
Il 78% degli tsunami è provocato dall’attività sismica, il 10% dall’attività vulcanica e dalle frane e il 2% dall’attività meteorologica.

Il nuovo obiettivo UNESCO è in linea con i risultati attesi del Decennio del Mare, ma anche con gli obiettivi concordati a livello internazionale, tra cui l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Sostenibile e il Quadro di Sendai per la riduzione del rischio di disastri 2015-2030.

UNESCO Tsunami Ready
©Lawrenc Eaton da unsplash

Bibliografia:

UNESCO Press Release: https://www.unesco.org/en/articles/tsunami-resilience-unesco-will-train-100-risk-coastal-communities-2030?utm_source=sendinblue&utm_campaign=UNOcean%20Daily%20Bulletin%2001%20-%202706&utm_medium=email

Maya Gabeira nuova Campionessa UNESCO per l’Oceano e i Giovani

La scorsa settimana, la città di Lisbona ha ospitato la Conferenza delle Nazioni Unite sull’Oceano, un evento di rilevanza globale che mira a rafforzare la cooperazione internazionale promuovendo una migliore comprensione e protezione dell’oceano per trovare soluzioni innovative ai problemi odierni.

In questa occasione, Audrey Azoulay, Direttore Generale dell’UNESCO, ha annunciato la nomina di Maya Gabeira, surfista brasiliana di Big Wave, ad ambasciatrice di buona volontà, nominandola “UNESCO Champion for the Ocean And Youth”.

Maya Gabeira, che attualmente detiene il primato mondiale dell’onda più alta mai surfata da una donna, avrà un ruolo attivo nel promuovere l’advocacy dell’UNESCO sui temi della sostenibilità dell’oceano. La surfista sarà in prima linea per mobilitare le nuove generazioni, ospitando vertici giovanili sulla sostenibilità dell’oceano e agendo come portavoce principale di GenOcean, la nuova campagna dell’UNESCO per stimolare cambiamenti nello stile di vita.

Sono molto preoccupata per le molteplici sfide legate all’oceano, dall’inquinamento alla perdita di biodiversità marina. Ciò che mi motiva nel ruolo di Campionessa UNESCO per l’Oceano e i Giovani è l’opportunità di vedere l’oceano attraverso una molteplicità di prospettive. L’UNESCO agisce per salvaguardare la biodiversità, sostiene la ricerca scientifica e i valori culturali dell’oceano. È per me un onore far conoscere la sua azione

Maya Gabeira, surfista brasiliana e UNESCO Goodwill ambassador “Champion for Ocean and Youth”
Evento di nomina di Maya Gabeira come UNESCO Champion for the Ocean and Youth

Chi è Maya Gabeira?

Maya Gabeira è una surfista brasiliana cresciuta in una famiglia impegnata da sempre sul fronte ambientale, per questo fin da piccola ha capito l’importanza delle questioni climatiche. Le azioni quotidiane aiutano e Maya è consapevole dei prodotti che acquista e delle aziende che sostiene.

Ha iniziato a fare surf all’età di 13 anni a Rio de Janeiro, in Brasile, ed è diventata professionista all’età di 17 anni. Da allora la sua passione è l’oceano.
Nella sua carriera di Big Waves, ha vinto i Billabong XXL Global Big Wave Awards per cinque anni di fila. Ma ha raggiunto l’apice della sua carriera nel 2020 a Nazaré, cavalcando un’onda di 22,4 metri, l’onda più grande mai surfata da una donna, battendo il Guinness World Record.

Dopo 15 anni a stretto contatto con l’oceano, Maya Gabeira ha assistito in prima persona all’impatto dell’inquinamento e del cambiamento climatico sul mondo marino, evidenziando l’urgenza di agire ora. Grazie alla sua collaborazione con la ONG Oceana, Maya Gabeira ha sostenuto una campagna contro la plastica in Brasile. Da oggi dedicherà la sua esperienza e il suo impegno per contribuire al raggiungimento degli obiettivi climatici dell’UNESCO.

Nomina di Maya Gabeira come UNESCO Champion for the Ocean and Youth presso la UN Ocean Conference a Lisbona.

L’impegno di Maya Gabeira per l’oceano

L’atleta brasiliana ha risposto alle domande poste dai giornalisti di UNESCO Courier sulle sfide affrontate nella sua carriera e sul suo impegno per la protezione dell’oceano. Riportiamo qui in italiano alcuni punti interessanti.

Sei stata nominata “UNESCO Champion for the Ocean and Youth”. Qual è il suo messaggio ai giovani di tutto il mondo e cosa può dirci sulla protezione dell’oceano?

È un onore accettare un titolo del genere. Spero di poter diffondere la consapevolezza delle sfide che l’oceano deve affrontare e delle azioni che possiamo intraprendere per proteggerlo! Noi, come individui, possiamo contribuire immensamente a ripristinare la salute dell’oceano.
Trascorro molto tempo nell’oceano e ho visto il suo declino negli ultimi anni. Spero che noi, come singoli individui, possiamo agire ora per preservarlo e fare pressione sui leader mondiali affinché facciano lo stesso su scala più ampia, come è necessario agire per raggiungere gli obiettivi dell’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile 14.

Sei molto esplicita sulla discriminazione di genere nel mondo dello sport e sugli atleti che combattono l’ansia. Puoi dirci qualcosa di più su questi temi?

Ho iniziato a fare surf all’età di 13 anni sulla spiaggia di Ipanema, a Rio de Janeiro. All’epoca, ispirata da un fidanzato e dai compagni di scuola, decisi di unirmi ai ragazzi nell’oceano piuttosto che aspettarli sulla spiaggia.

Ho dovuto impegnarmi sulla questione di genere perché la mancanza di opportunità per noi donne nel surf da onda grande era enorme. Quindi, per continuare a progredire nel mio sport, ho dovuto cambiare le cose. Ho dovuto creare una piattaforma migliore per poter continuare a perseguire una carriera professionale nel surf.
Mi piace anche fare in modo che le atlete che verranno dopo di me non debbano affrontare le mie stesse difficoltà. Questo è il mio piccolo contributo allo sport.

A proposito di salute mentale: quando mi è stato diagnosticato un disturbo d’ansia la mia vita è cambiata in meglio. Ho lottato a lungo, senza sapere cosa avessi. Dopo la diagnosi, l’ho detto alla mia cerchia ristretta e la mia vita è diventata molto più facile. Ho sentito che parlarne ha avuto un grande impatto positivo sulla mia salute.

Nel 2013 un incidente ti ha quasi tolto la vita, ma poi hai avuto un incredibile ritorno battendo due record mondiali. Cosa ti ha dato questa forza?

La passione per questo sport, la passione per l’oceano e il mio stile di vita.

Mi ci sono voluti quattro anni per rimettere in sesto il mio corpo e la mia mente per surfare grandi onde e battere record. Non volevo rinunciare ai miei sogni e non volevo rinunciare a diventare un surfista professionista. Quindi, in un certo senso, è stato più naturale continuare a lottare che abbandonare la mia vita e la mia passione. Il progresso quotidiano mi ha motivata, festeggiando le piccole tappe lungo il percorso.

Quali obiettivi speri di raggiungere in qualità di UNESCO Champion?

In primo luogo, continuare a educare me stessa per essere in grado di educare gli altri; continuare a comprendere la scienza e a seguire le informazioni provenienti dalla ricerca per capire come possiamo proteggere l’oceano in modo più efficace. A livello personale, possiamo proteggere l’oceano con azioni quotidiane, ma spero di poter utilizzare la mia piattaforma e il mio amore per l’oceano per coinvolgere più persone in questa conversazione e contribuire a renderla un argomento di tendenza globale come dovrebbe essere!

Praia do Norte, Nazaré – Portugal @Alessandro Sessa su Unsplash

Bibliografia:

Articolo completo su UNESCO: https://www.unesco.org/en/articles/unesco-welcomes-brazilian-surfer-maya-gabeira-champion-ocean-and-youth

GenO People: https://genocean.org/people/maya-gabeira/

Intervista per UNESCO Courier: https://courier.unesco.org/en/articles/maya-gabeira-individuals-we-can-do-lot-help-oceans-recover